Specula Revista de Humanidades y Espiritualidad

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LINGUAGGIO, COMICITÀ E PERSONAGGIO FEMMINILE NELL’EPITALAMIO GIUDEO-CATALANO PIYYUṬ NA’EH

LANGUAGE, HUMOUR AND THE FEMALE CHARACTER IN THE JUDEO-CATALAN EPITHALAM PIYYUṬ NA’EH

Erica Baricci1

Fechas de recepción y aceptación: 17 de noviembre de 2022 y 20 de diciembre de 2022

DOI: https://doi.org/10.46583/specula_2023.1.1099

Riassunto. Ad oggi sono noti alla comunità scientifica cinque epitalami giudeo-catalani, conservati in due manoscritti (Gerusalemme, Biblioteca Nazionale Universitaria, ms. 8° 3312 e Oxford, Bodleian Library, ms. Lyell 98) risalenti a metà XV secolo e provenienti da ambiente provenzale. Tra questi, una particolare attenzione spetta a piyyuṭ na’eh, un ‘canto festivo’ pensato per i festeggiamenti che seguono il rito nuziale. Questo canto è una parodia, dai toni umoristici e dalle forti allusioni erotiche, che si presenta in forma di dialogo tra i due sposi, un vecchio e una ragazza. L’interesse di questo testo riguarda innanzitutto il linguaggio, e in secondo luogo la sua forma letteraria. Per quanto riguarda il linguaggio, esso un prezioso testimone linguistico di una fase poco attestata, perché alquanto antica, del giudeo-catalano parlato. A livello letterario, piyyuṭ na’eh è un testo assai ricercato, i cui toni ‘popolareggianti’ sono ottenuti attraverso un sapiente uso del linguaggio ‘colloquiale’, della metrica, della caratterizzazione stereotipica dei personaggi. In questo saggio, presento innanzitutto l’analisi semantica della componente ebraica, approfondendo le varie categorie linguistiche e/o stilistiche in cui possono essere fatti rientrare gli ebraismi del testo, per mostrare come questa dinamica riproduca ed esasperi per intenti comici la prassi linguistica quotidiana degli ebrei catalani dell’epoca. In secondo luogo, mostro come piyyuṭ na’eh sia stato composto da un autore dotto che disponeva di fonti letterarie ebraiche e romanze e propongo una contestualizzazione di questo tipo di testo nell’ambito del genere letterario romanzo della pastorella e della canzone di donna, in cui la figura femminile costituisce l’occasione della scenetta umoristica e la giustificazione del ricorso a un codice mistilingue.

Parole chiave. Epitalami, giudeo-catalano, Jewish Languages, merged Hebrew, Purim, parodia, Pastorella, malmaritata, canzone di donna.

Abstract. To date, Five Judeo-Catalan epithalams are known to the scientific community. They are preserved in two manuscripts (Jerusalem, National University Library, ms. 8° 3312 and Oxford, Bodleian Library, ms. Lyell 98) dating back to the mid-15th century and coming from a Provençal Jewish milieu. Among these, a particular mention deserves piyyuṭ na’eh, a ‘festive song’ designed for the celebrations following the wedding ceremony. This song is a parody, with humorous tones and erotic allusions, which is presented in the form of a dialogue between the two spouses, an old man and a girl. The interest of this text concerns firstly the language, and secondly its literary form. As for the language, piyyuṭ na’eh is a precious, early witness of an almost unattested phase of spoken Judeo-Catalan. On a literary level, piyyuṭ na’eh is a highly refined text, whose ‘popular’ tones are obtained through a skilful use of ‘colloquial’ language, metrics, and the stereotypical depiction of the characters. In this article, I will deal in detail with the semantic analysis of the Hebrew component, deepening the various linguistic and / or stylistic categories into which the Hebrew words can be included. The aim is to show how this dynamic reproduces and exasperates, for comic purposes, daily linguistic practice of the Catalan Jews of that time. Secondly, I will show that piyyuṭ na’eh was composed by a learned author who had both Hebrew and Romance literary sources at disposal. I will also propose a contextualization of this type of text in the context of the Pastorella literary genre, and ‘women’s song’, in which the female figure constitutes the occasion for the humorous skit and the justification for the use of a ‘mixed-language’ code.

Keywords. Epithalams, Judeo-Catalan, Jewish Languages, merged Hebrew, Purim, parody, Pastorela, malmariée, women’s song.

1. INTRODUZIONE

Nel Medioevo, presso le comunità ebraiche di Francia, era uso, una volta concluso il rito matrimoniale, che gli sposi si accomodassero su due sedie opposte: tutti danzavano attorno a loro intonando canti nuziali su melodie che appartenevano al serbatoio popolare dell’ambiente circostante.2 Accanto a testi più seri, veri e propri canti liturgici di alto contenuto morale e religioso, spesso opera di grandi autori e ispirati in primis al Cantico dei Cantici, vi era anche una produzione ‘goliardica’ (Rosenzweig, 2011, pp. 43-44) non sempre apprezzata dai rabbini a causa delle crude allusioni erotiche e per l’uso parodico e dissacrante dei versetti biblici (Lazar, 1970, pp. 335-36).

A questo secondo genere appartiene l’epitalamio giudeo-catalano3piyyuṭ na’eh, ‘una gradevole poesia festiva’, oggetto specifico di questo contributo. Piyyuṭ na’eh è conservato in due manoscritti,4 entrambi risalenti al XV secolo e provenienti da ambiente provenzale, come suggeriscono i codici, raccolte di preghiere e canti liturgici secondo il rito degli ebrei di Provenza.5 Verosimilmente, l’origine di piyyuṭ na’eh e degli altri quattro epitalami giudeo-catalani contenuti nei medesimi manoscritti,6 è da ricercare nei territori di lingua catalana di Girona o Perpignan (nel Roussillon) (Riera, 1974, p. 12). Gli editori propongono, come datazione di questo e degli altri testi giudeo-catalani, un arco di tempo compreso tra la metà del XIV secolo e gli anni Venti del XV secolo circa.7

L’autore di piyyuṭ na’eh, ignoto ma indubbiamente raffinato, mette in scena un dialogo tra due sposi – lo zaqen, il vecchio, e la na‘arah, la giovinetta – che vuole essere una condanna, condotta con toni umoristici e un sapiente uso della parodia, del matrimonio tra una ragazza e un anziano, tema discusso dalla tradizione rabbinica.8 I maestri, infatti, disapprovavano questo tipo di unione perché ritenevano che la poca prestanza del vecchio sposo potesse indurre la giovinetta all’adulterio.9 Aldilà del tema, che di per sé si presta a una lettura in chiave comica, ciò che dà comicità al testo è il linguaggio: un catalano misto a ebraismi i quali, oltre a dare la rima, sono utilizzati in modo dissacrante, perché calati in un contesto licenzioso, e spesso sono intesi in una accezione connotata, talvolta semplicemente più banale e quotidiana dell’originale, talvolta pesantemente triviale.

Dati i notevoli spunti offerti dal testo, esso è stato oggetto di una certa attenzione da parte degli studiosi: innanzitutto Moshe Lazar, primo editore, che lo pubblicò, insieme agli altri due epitalami conservati nel manoscritto di Gerusalemme, prima nel 1970 (in ebraico) e poi nel 1971 (in francese); a seguire Riera (1974), che approntò un’edizione tuttora considerata la più autoritativa,10 perché condotta su entrambi i testimoni, Gerusalemme e Oxford. Quest’ultimo manoscritto, infatti, era sconosciuto a Lazar. Piyyuṭ na’eh è stato indagato anche dal punto di vista linguistico, negli importanti contributi di Argenter (2001) e Baum (2016), soprattutto per quanto riguarda il code switiching, l’impiego della componente ebraica per uso parodico, le eventuali spie del parlato che trapelano dal testo e, non da ultimo, la sua analisi fonetica e morfologica per una definizione del giudeo-catalano (Argenter, 2001, pp. 377-402; Baum, 2016, pp. 166-202).

In questa sede, dopo avere presentato il testo dell’epitalamio secondo l’edizione Riera, mi concentrerò in particolare su due punti:

1. L’approfondimento, nel solco dell’articolo di Baum, ma con ulteriori riflessioni, dell’analisi linguistico-semantica del testo, con particolare riferimento al rapporto tra componente romanza e componente ebraica. L’obiettivo è mettere in evidenza come questa dinamica riproduca ed esasperi per intenti comici la prassi linguistica quotidiana degli ebrei catalani dell’epoca e costituisca, dunque, sia un fatto stilistico, sia una preziosa testimonianza storico-linguistica.

2. La contestualizzazione di questo tipo di testo nell’ambito di una determinata produzione letteraria in lingua romanza, in cui la figura femminile sembra quasi costituire l’occasione della scenetta umoristica e la giustificazione del ricorso a un codice ‘mistilingue’.

2. PIYYUṬ NAEH: TESTO E TRADUZIONE:11

Piyyuṭ na’eh [una gradevole poesia festiva]

Al teḥallel [non profanerai]: passà qui primer donà 1

Sa filla al zaqen [vecchio] qui la·n feu zonah [prostituta]

El zaqen s’en va a colgar al ro’š ha-miṭṭah [testata del letto]

La na‘arah [fanciulla] lo desperta/ amb gran gevurah [forza]

Lo zaqen li·n diu: «que n’es tu šoṭah [pazza], 5

še’er, keśut [nutrimento, vestiti] n’hauras, mas no pas ‘onah [soddisfazione sessuale]”

La na‘arah li·n diu: “perdut n’haveu el moaḥ [cervello]

No n’haveu virtut ne punt de koaḥ [forza]

Tot el vostro feit es un bel ruaḥ [vento, è inconsistente]!

Mas io prec en Deu qu’en breu ne sia almanah [vedova]!” 10

El zaqen li·n diu: “io so dels gedolim [grandi, maestri, antichi]

Escolta ma filla aquesti mešalim [proverbi].

No es ara hora de dir havalim [sciocchezze, vanvere]!

Cel qui·n feu lo ḥittun [matrimonio] n’haja la mala šanah [anno]

La na‘arah li·n diu: feume aquel ma‘aśeh [fatto, opera] 15

Per que n’hajau el gid hanašeh [nervo sciatico]

Mas io juro en Deu e en la lei de Mošeh,

Que si vos no me·l feu, io asquinçaré la ketubbah [contratto nuziale]

El zaqen l’en diu: be-ša‘ah berakhah! [alla benedetta ora]

Far io no sa[i] aquella melakhah [lavoro] 20

Mas io vos portaré un bon baḥur gibbor [robusto giovanotto]

Que el te darà en/ ma[n] una hoša‘na rabba [un grosso ramo]12

La na‘arah l’en diu: “Io me’n vuy anar

am un baḥur gibbor [robusto giovanotto] vuy passar lo mar

e sì, en tot me’n vuy anar 25

am una galera o am una sefinah [barca].

Al teḥallel [non profanerai]

[Poesia conveniente. Al teḥallel [non profanerai]: trasgredì chi per primo diede / Sua figlia al zaqen [vecchio] che ne fa una zonah [prostituta] / Lo zaqen va a coricarsi al rō’š ha-Miṭâ [testata del letto] / La na‘arah [fanciulla] lo sveglia/ con gran gevurah [forza] / Lo zaqen dice: «che c’è, tu, šoṭah [pazza]! / še’er, kesut [nutrimento, vestiti] avrai, ma nessuna ‘onah [soddisfazione sessuale]”. / La na‘arah gli dice: “perduto avete il moaḥ [cervello] / Non avete valore né affatto di koaḥ [forza] / Tutto il vostro fare è un bel ruaḥ [vento]! / Ma io prego Dio che in breve sia almanah [vedova]!” / Lo zaqen le dice: io sono uno dei gedolim [grandi, anziani] / Ascolta figlia mia questi mešalim [proverbi]. / Non è ora di dire havalim [sciocchezze, vanvere]! / Chi arrangia lo ḥittun [matrimonio] abbia la mala šanah [malanno]. / La na‘arah gli dice: fatemi quel ma‘aśeh [fatto, opera] / Per cui avete il gid hanašeh [nervo sciatico] / Ma io giuro su Dio e sulla legge di Mošeh, / che se voi non me lo fate, straccerò la ketubbah [contratto nuziale] / Lo zaqen dice: beša‛ah berakhah! [alla benedetta ora] / Non so fare quella melakhah [lavoro] / Ma io vi porterò un bel baḥur gibbor [robusto giovanotto] / Che ti darà in mano una hoša‘na rabba [un grosso ramo] / La na‘arah gli dice: “Io me ne voglio andare/ con un baḥur gibbor voglio passare il mare/ assolutamente me ne voglio andare / in una galera o in una sefinah [barca]. Al teḥallel [non profanerai].

Il testo si presenta come una sorta di scenetta dialogata, in cui si alternano le voci dei due protagonisti: la na‘arah e lo zaqen. Terzo personaggio, ‘l’assente’, è il baḥur gibbor, il giovanotto aitante con il quale la fanciulla desidera fuggire.

Il tema della poesia è introdotto nell’esordio, tramite una sottile allusione biblico-talmudica. Al teḥallel (‘non profanare’) è una citazione dal Levitico: “non profanare tua figlia dandola alla prostituzione” (Lev. 19: 29); questo passaggio è commentato nel Talmud (Sanhedrin 76a) con la precisazione che colui che profana la propria figlia prostituendola è colui che la sposa a un vecchio. Rashi, il grande maestro di Troyes dell’XI-XII secolo, commentando il passaggio, chiosa: “la fanciulla desidera l’unione sessuale, mentre il vecchio è appagato” (Lazar, 1970, pp. 339-340).

Le dotte citazioni cui si occhieggia in apertura servono da legittimazione parodica alla scena che viene poi esposta nelle strofe seguenti, nelle quali si descrive l’insoddisfazione della fanciulla per l’impotenza del vecchio sposo e il tentativo di questi di compensare alle sue mancanze erotiche con beni di altra natura: nutrimento, vestiti e saggezza. Scornato dalla vanità incontentabile della fanciulla, progetta di fornirle nientemeno che un giovanotto, ottenendo infine grande approvazione da parte della sposa.

Nell’epitalamio, l’ebraico e il catalano interagiscono in maniera assai dinamica, poiché l’ebraico è intercalato al catalano senza soluzione di continuità, a fornire soprattutto alcuni termini o brevi espressioni.13 Questa è una specificità di piyyuṭ na’eh. Gli altri quattro epitalami giudeo-catalani conservati nei manoscritti di Gerusalemme e Oxford, infatti, presentano una farcitura ebraica di tutt’altro genere: sono quartine monorime, tendenzialmente di octosyllabes – anche se si ha oscillazione tra le sette e le nove sillabe – seguite da un refrain (sempre costituito dall’espressione šir hadaš, “un canto nuovo”). Dei quattro versi che formano la quartina, i primi tre sono in lingua romanza, il quarto è in ebraico ed è il generatore della rima. Nella strofa seguente, per esempio, che è la seconda strofa dell’epitalamio šir našir, ‘cantiamo un canto’, rivolto allo sposo:

Ver Déu, sobre tot sobirà

tot jorn fa virtut e farà.

Breument nostra fi nos rendrà

כי מציון תצא תורה.

שיר חדש.

(Riera 1974, pp. 24-25)

[Dio veritiero, sovrano su tutto/sempre opera con virtù e lo farà. / Entro breve ci condurrà alla fine (= alla fine dei giorni, ovvero all’era messianica) /poiché da Sion esce la Torah (Is. 2:3). Šir ḥadaš]

I primi tre versi si presentano come una sorta di preghiera a Dio, con la speranza che Egli sia benevolo nei confronti del suo popolo e arrivino i giorni del Messia, quando tutto il popolo si riunirà in terra di Israele e il Tempio sarà ricostruito (“Breument nostra fi nos rendrà”). Questo contenuto è ripreso ed esplicitato dal versetto che chiude la quartina, tratto da Isaia, e che interamente recita: “poiché la Legge uscirà da Sion e la parola di Dio da Gerusalemme” (Is. 2: 3). In questo caso, l’ebraico ha una funzione sia di glossa, poiché esplicita e chiarisce il senso del catalano, non senza allusività, sia di auctoritas, poiché sancisce la legittimità di tale preghiera.

Non sfuggirà la diversità dei toni di šir našir e piyyuṭ na’eh, là seri, qua faceti. Questo è dovuto sia al diverso spazio in cui è calato l’ebraico (da una parte un versus cum auctoritate, dall’altra una singola parola o espressione all’interno di un discorso continuo in catalano),14 sia (e conseguentemente) a come l’ebraico è mantenuto nel suo alto significato originario (šir našir) oppure viene estratto dal sacro contesto in cui si origina, per essere manipolato in senso umoristico (piyyuṭ na’eh). Si tratta inoltre di due generi letterari diversi: da una parte un epitalamio vero e proprio, dai toni solenni, pensato per celebrare le nozze di due persone, dall’altra un “canto festivo” (Argenter 2001, p. 379), che è un’autentica parodia, concepito per un contesto molto più disteso, ovvero la festa dopo il rito matrimoniale.

Un caso letterario e stilistico accostabile a piyyuṭ na’eh, e di non molto posteriore,15 è la splendida Massekhet ḥamor (‘il trattato dell’asino’) di Gedalya ibn Yahia, in giudeo-italiano. Anche qui “il discorso si snoda spontaneamente [...] tra ebraico e volgare” perché l’autore “si permette di servirsi delle due lingue senza una regola, semplicemente abolendo i confini (Mayer Modena, 2001, p. 311). Non a caso, anche la Massekhet ḥamor è una parodia, che come piyyuṭ na’eh presenta chiari elementi teatrali, e che infatti fu concepita per essere recitata a Purim, il ‘Carnevale ebraico’: proprio il contesto carnevalesco per cui essa fu pensata potrebbe avere indotto, secondo Mayer Modena (Mayer Modena, 2001, p. 312). questa eccezionale ‘fusione’ dei confini linguistici tra ebraico e volgare, così come durante la festa è lecito “confondere Mordekhay e Haman”.16

Non è del tutto escluso, dato lo straordinario intreccio di elementi innovativi, che piyyuṭ na’eh sia stato composto per un’occasione straordinariamente festosa, in cui si sommavano i due eventi e il relativo spirito ‘sopra le righe’ che li contraddistingue, ovvero la baldoria conseguente al matrimonio e il Purim. In fondo, questo è ciò che accade nel primo testo teatrale in ebraico mai scritto, Ṣaḥut Bediḥuta de-Qiddušin, ‘la commedia del matrimonio’ di Leone de’ Sommi (Mantova, 1525-1590 circa), in cui l’intreccio ruota intorno al matrimonio dei protagonisti e l’ambientazione è nei giorni di Purim: “il che permette tutto ciò che è stravagante” (Mayer Modena, 2001, p. 313).

3. CONSIDERAZIONI LINGUISTICHE SULLA COMPONENTE EBRAICA

La componente ebraica di piyyuṭ na’eh è tutta volta a generare il riso. Tra le ventisette diverse parole o espressioni in ebraico presenti nel testo, è possibile operare delle categorizzazioni, poiché l’ironia che ciascuna di esse scatena deriva da diversi fattori stilistici, linguistici e/o sociolinguistici.

La prima categoria in cui rientrano alcuni degli ebraismi di piyyuṭ na’eh è la più tradizionale, dal punto di vista letterario, poiché si tratta della tecnica stilistica, di grande fortuna nella letteratura post-biblica e messa a punto proprio nel Medioevo spagnolo, chiamata šibbuṣ, ovvero ‘inserimento’: un termine o una frase tratti dalla Bibbia sono inseriti nel nuovo testo e, presupponendo che il lettore colga la citazione, questo ne risulta impreziosito e arricchito di significato (Tamani, 2004, pp. 34-37). Talvolta, lo šibbuṣ è impiegato con intenti ironici o addirittura parodici (come è il caso di piyyuṭ na’eh) perché il nuovo contesto in cui si cala la citazione biblica ne costituisce una banalizzazione dissacrante.

A questa prima categoria di ebraismi appartiene, nell’epitalamio, l’espressione iniziale Al teḥallel, che introducendo il tema del testo presuppone, nella sua sinteticità, non solo la conoscenza di tutto il passo del Levitico da cui è tratta, ma anche delle interpretazioni rabbiniche ad esso relative.

Ugualmente, i termini še’er, keśut e ‘onah sono dotte citazioni bibliche tratte da un contesto normativo, ovvero Es. 21:10, capitolo che non a caso verte sui doveri del marito verso la moglie, nel momento in cui egli voglia prendersi delle concubine. Anche in questo caso, le citazioni bibliche implicano nel pubblico la conoscenza delle interpretazioni rabbiniche. I termini in questione nel passo di Es. 21: 10, infatti, sono oscuri, tanto che già nel Talmud (Ketubbot 47b) vari maestri ne diedero diverse interpretazioni. Rava sosteneva, per esempio, che še’er indicasse il cibo, keśut il vestiario, ‘onah i doveri coniugali. La sua interpretazione dovette risultare vincente, poiché è quella che riporta Rashi e, evidentemente, anche l’autore di piyyuṭ na’eh e il suo pubblico condividevano tale lettura.

Altre espressioni che rientrano in questa categoria sono: (a) ro’š ha-miṭṭah, ‘la cima del letto’, citazione da Gen. 47: 31: “E Giacobbe si lasciò cadere sulla cima del letto”. L’allusione alla vecchiaia dello zaqen, pur sottile e ironica, è chiara: il patriarca (alla veneranda età di cento quarantasette anni!) è sul letto di morte, tanto che ha appena chiesto a suo figlio Giuseppe di promettergli che sarà sepolto nella sua terra; (b) gid ha-našeh, che nel testo indica per estensione il membro virile (e che quindi rientra anche nella categoria dell’eufemismo, che tratteremo a breve), ma che in realtà è il nervo sciatico, la cui consumazione è proibita dalla kašerut, la normativa alimentare ebraica, in ricordo della lesione che ne risultò a Giacobbe dopo la lotta con l’angelo (Gen. 32: 33) (3) gedolim: ‘i grandi, gli insigni’. Non è una citazione precisa, ma un impiego diffuso in ebraico biblico per intendere gli uomini illustri. Come tale, la parola assume una certa carica ironica nel contesto in cui è inserita, visto che a definirsi così è un anziano sposo senza alcuna prestanza, che può ritenersi grande solo nel senso di età.

In una seconda categoria di carattere stilistico, potrebbero rientrare quelle parole che appartengono all’ebraico usato all’epoca “fra le persone dotte, ricco di elementi di ebraico biblico, postbiblico e medievale”.17 Esse non sprigionano una specifica forza comica, ma servono come ‘farcitura’ ebraica e per la rima: sefinah ‘barca’, gevurah ‘forza’,18koaḥ ‘forza’, moaḥ, ‘cervello’. È, forse, di qualche interesse notare che almeno in alcuni casi di ‘farcitura’, l’ebraico si presenta come una sorta di glossa del catalano, in modo simile a quanto detto a proposito di šir našir, solo che lì si tratta di versi e qui di singole parole: vertut/koaḥ; galera/sefinah.19

Un’altra categoria da considerare, nell’esaminare la componente ebraica del piyyuṭ, non riguarda più semplicemente lo stile, ma la lingua, e precisamente la semantica. Molti dei termini ebraici, infatti, possiedono una forte carica comica perché essi stessi hanno assunto un significato nuovo, connotato e spesso ironico, rispetto all’originale. Un’espressione come hoša‘ana rabbah, che non è più il nome del giorno festivo, bensì un modo per intendere il membro virile, mostra in modo palese come questa connotazione semantica possa essere impiegata a fini pesantemente parodici (oltre che, vedremo, eufemistici).

Altri termini non sono così trivializzati, ma assumono piena forza idiomatica, ‘decadendo’ semanticamente da un significato originale altamente spirituale (perché è proprio grazie alla sfera religiosa che questi termini erano conosciuti e frequentemente utilizzati): ruaḥ, ‘vento’, ‘spirito’ (umano, ma anche divino), inteso qui nel senso figurato di ‘realtà inconsistente’; mešalim, le ‘parabole’ (nonché titolo ebraico del libro dei Proverbi), qui quasi nel significato un po’ ironico di ‘ramanzina’;20havalim ‘vanità’ (termine divenuto celebre grazie all’uso martellante che ne fa l’Ecclesiaste), che assume il senso di ‘vanvere, sciocchezze’.21 Queste parole ebraiche non sono più sentite come ebraico tout court, ma come parte integrante della lingua corrente22 e come tali, dunque, possono anche assumere un significato connotato. In piyyuṭ na’eh la presenza di questo tipo di ebraismi è motivata dall’intento tutto letterario di mimetismo della lingua parlata, ma ha anche il risvolto positivo di costituire, per noi, un ricco serbatoio di rare testimonianze linguistiche. Questa risemantizzazione della componente ebraica nei Jewish Languages, infatti, ci è attestata per epoche relativamente recenti (in generale a partire almeno dal XVI secolo) (Mayer Modena, 1999, pp. 101-102) per cui piyyuṭ na’eh è un testimone linguistico assai prezioso e precoce.

Anche in altri casi si avverte l’aderenza alla lingua parlata. Ciò succede per esempio con la categoria dei tecnicismi cultuali e religiosi, come ketubbah (‘contratto nuziale’), ḥittun (‘matrimonio’), lei de Mošeh (= ‘legge di Mosè’, ovvero Torah; il nome di Mosè appare, come sempre i nomi propri, nella forma ebraica e non romanza). Essi mantengono il significato che è loro proprio in ebraico, ma la disinvoltura con cui sono inseriti nel discorso catalano li fa percepire come parte del lessico famigliare, che rimane in ebraico perché è intraducibile (Mayer Modena, 1999, pp. 99-100).

Le espressioni ‘miste’ sono un’altra spia dell’interazione tra le due componenti del giudeo-catalano tipica del parlato, soprattutto nella fase moderna dei Jewish Languages:23 in questa categoria farei rientrare i nomi dei protagonisti, el zaqen e la na‘arah, ebraismi dotati di articolo romanzo; o un’espressione come la mala šanah, letteralmente ‘malanno’.24 Un’altra espressione di questo genere è beša‘ah berakhah, ‘alla benedetta ora’, ‘alla buon’ora’, che nonostante appaia tutta in ebraico, è un calco sul catalano enhorabona (espressione augurio e/o di congratulazione, Baum, 2016, p. 174).

Infine, nell’epitalamio appare un’altra categoria di ebraismi che diventa estremamente produttiva negli stadi più evoluti degli idiomi ebraici: l’impiego eufemistico dell’ebraico per risolvere l’interdizione linguistica.25 Il tabù, che colpisce o realtà temute o realtà per cui si teme, determina a livello di lingua un fenomeno di interdizione e la conseguente necessità di trovare un sostituto al termine in questione. L’eufemismo ricorre spesso, tra i suoi stratagemmi, alla traduzione del termine tabù in un’altra lingua, più remota nella coscienza del parlante e dunque meno coinvolgente emotivamente, e negli idiomi ebraici tale fenomeno si riscontra costantemente (Mayer Modena, 1997, pp. 947-948). Oltre al termine almanah, ‘vedova’, che può essere spiegato come un eufemismo appartenente al tabù della morte, sono eufemismi melakhah ‘opera, lavoro’ e ma‘aśeh ‘fatto’, con riferimento all’amplesso; già il termine generico ‘fatto’ è del resto un eufemismo, ulteriormente coperto dalla traduzione in ebraico. Siamo di fronte a un caso di ‘tabù sociale’ o ‘tabù di decenza’ (Mayer Modena, 1978, p. 172) come nel caso di zonah ‘prostituta’ o šoṭah ‘pazza, sciocca’. Particolarmente in questi casi di eufemismo, il ricorso ai termini ebraici, anziché agli equivalenti catalani, non sembra determinato solo dalle esigenze della rima o della parodia, ma pare riflettere il reale uso che se ne faceva nella lingua parlata.

Insomma, ci troviamo davanti a un dialogo che, in nome di una volontà tutta letteraria di mimetismo, mette in scena un linguaggio che in molti punti parrebbe ricalcare l’oralità colloquiale degli ebrei dell’epoca. È quello che Baum, in riferimento a piyyuṭ na’eh, ha efficacemente definito “written spoken language” (Baum, 2016, p. 167). Certo si dovrà mettere in conto una certa esasperazione parodica della lingua; eppure, gli ebraismi del piyyuṭ manifestano una sicurezza profonda nel modo in cui vengono inseriti nel discorso e non sembra (tranne naturalmente nel caso delle citazioni) che si tratti di conî estemporanei di pugno dell’autore, bensì di una modalità comunicativa abituale, né inedita né isolata, anche se qui portata agli eccessi. D’altro canto, il pubblico doveva recepirne il senso e comprenderne l’ironia e, per questo, provava ilarità.

Un impiego così ricco e dinamico della componente ebraica, che è raro vedere attestato nello scritto a questa altezza cronologica (Mayer Modena, 1999, p. 104), forse può mostrarci qualche squarcio sulla realtà stratificata del linguaggio degli ebrei catalani i quali, evidentemente già all’epoca di composizione del testo, in varietà più disinibite della lingua (e quindi più difficilmente testimoniate), infarcivano i loro discorsi di ebraismi metaforizzati e connotati in senso affettivo, colloquiale ed eufemistico.

4. APERTURE AL TEATRO, PASTORELLE E FIGURE FEMMINILI

Se piyyuṭ na’eh possiede un impareggiabile valore come testimonianza linguistica, non bisogna trascurarne la raffinata dimensione letteraria.26 Come si diceva, del resto, l’autore ‘mette in scena’ il linguaggio della quotidianità per uno scopo di mimetismo letterario.

La velleità mimetica del parlato, fino alla stereotipia e all’esagerazione, giustificate dall’intento comico, rimanda immediatamente al teatro o, se non altro, a un tentativo di drammatizzazione. In questa prospettiva, i nomi dei protagonisti della scenetta necessitano di ulteriore considerazione. Sia la na‛arah che lo zaqen – senza citare il terzo carattere, il baḥur gibbor – sono qui dei personaggi, al punto che i loro nomi ebraici, per quanto siano sostantivi comuni, assumono quasi una forza antonomastica, diventando nomi stereotipici, come se si avesse a che fare con delle mascherette teatrali. Anche altri sono gli elementi che sembrano sottendere a uno sviluppo teatrale: il ritmo serrato di botta e risposta tra lo sposo e la sposa, vivace per le risposte fulminanti che rimbalzano dall’uno all’altra, fino a culminare con il ricatto della sposa, “asquinçaré la ketubbah” e la controproposta dello sposo: “io te daré un bon baḥur gibbor”; le allusioni erotiche (hoša‘anah rabbah, gid ha-našeh), dotte ma non per questo velate, rimandano al gusto del comico per l’elemento osceno; infine, la scelta stessa del plurilinguismo, che è costante marca del teatro sin dalla sua fase aurorale (Zumthor, 1963, p. 91).

Per certi versi, lo schema narrativo/drammatico messo in scena richiama la struttura narrativo-tematica di base della Pastorella27 (o di sottogeneri, come la malmaritata, gravitanti nell’orbita della Pastorella): un drammatico – e non di rado ironico – scambio di battute salaci tra un uomo e una donna,28 il cui argomento di fondo è la possibilità di consumare l’amore.

Sia nel caso della Pastorella trobadorica, sia nel caso di piyyuṭ na’eh, abbiamo a che fare con testi dotti che traggono la loro ricercatezza dalla ripresa di temi e modi sentiti come ‘popolari’, in particolare la presenza di una donna che parla e ribatte all’uomo con toni salaci e un linguaggio tutto suo, talvolta addirittura in un’altra lingua, come avviene nel cosiddetto ‘contrasto con la genovese’ (Domna, tant vos ai preiada) di Raimbaut de Vaqueiras. Lì il contrasto drammatico e l’ironia della scena risultano accentuati proprio dal bilinguismo (Meneghetti, 1997, pp. 230-233).

Jujar, to proenzalesco,

s’eu aja gauzo de mi,

non prezo un genoì.

No t’entend plui d’un Toesco,

o Sardo o Barbarì,

non ò cura de ti.

Voi t’acaveilar co mego?

Si·l saverà me’ marì,

mal plait averai con sego.

Bel messer, ver e’ve dì:

no vollo questo latì;

fraello, zo ve’ afì.

Proenzal, va, mal vestì,

largaime star!

(Cobla VI, vv. 71-84. Linskill, 1964, p. 101, III lirica).

L’accostamento delle due lingue è qui anche accostamento di due registri: alle “grandiose raffiche verbali” (Brugnolo, 2004, p. 630) della genovese si contrappone il linguaggio trobadorico dell’amor cortese, che risulta parodiato proprio attraverso il contrasto con le risposte fulminanti e disincantate della donna.

In piyyuṭ na’eh non si tratta di bilinguismo orizzontale, come in Domna, tant vois ai preiada, bensì delle due componenti, ebraica e romanza, del giudeo-catalano, ma la forza comica del testo viene accentuata anche in questo caso dal code switching, soprattutto nell’uso dissacrante dell’ebraico.

È proprio la presenza di una figura femminile ‘parlante’ che giustifica nel testo l’impiego di questo linguaggio misto così interessante. Innanzitutto, perché, se pure esso viene esagerato e raffinato per ragioni comiche e letterarie dall’autore, doveva essere percepito come un riflesso della conversazione di famiglia, fatta nella lingua materna e non nella lingua sacra. Gli idiomi ebraici, soprattutto nelle fasi più antiche, sono considerati la lingua delle donne e dei bambini, e quindi della comunicazione famigliare, in opposizione all’ebraico, sentito come appannaggio maschile e impiegato, almeno idealmente, alla casa di studio tra uomini. Quando un testo in un idioma giudeo-romanzo nel Medioevo raggiunge lo scritto (fatto raro, perché esso è sentito come pertinente l’oralità), l’autore tende a giustificarlo in modo più o meno esplicito in riferimento a un pubblico femminile o perché nella finzione letteraria parla una donna.29 Anche gli uomini parlavano in lingua romanza e usufruivano di questi testi, sicuramente più divertenti e comprensibili di quelli in ebraico, ma ‘non era bene’ ammetterlo. In questo caso, dunque, è permesso portare in scena la lingua femminile, quella parlata in casa tra marito e moglie, perché si vuole ‘far parlare’ la donna.

Inoltre, come nella Pastorella, in cui la donna ha una parte tanto arguta e battute spigliate in virtù della sua ‘inferiorità sociale’ – la midonz trobadorica non parlerebbe mai così e di fatto non parla mai – anche nella letteratura ebraica medievale la figura femminile ‘elevata’ (più moralmente che socialmente in questo caso) è silenziosa o di poche, rarefatte parole, mentre la donna ‘volgare’ viene raffigurata tramite una loquela ricca e incisiva (Rosen, 1988, p. 69). In piyyuṭ na’eh, le velleità adultere della na‘arah la abbassano moralmente e così, paradossalmente, la rendono un personaggio comico degno di sostenere un arguto battibecco col consorte nella lingua materna.

Che la figura femminile sia centrale per dare al testo un tono ‘popolareggiante’, lo suggerisce in altro modo anche la strofa finale. Già Lazar notava che essa sembra la strofa preesistente di una canzone catalana o provenzale “artificiellement rattachéee au reste de la chanson” (Lazar 1970, p. 336). La farcitura di ebraismi sarebbe avvenuta solo in un secondo tempo per accordarla al decasillabo e impreziosirla. Se si tolgono gli ebraismi, infatti, i quali sono effettivamente accessori per l’intelligenza sintattica dei versi, si ricompone “une quatrain de vers pentasyllabiques (aaab)” che doveva suonare così:

Io me vuy anar

vuy pasar lo mar

e si, vuy anar

en una galera

La fanciulla vuole attraversare il mare con una barca e, attraverso la farcitura ebraica, possiamo immaginare che lo voglia fare per raggiungere il baḥur amato. L’immagine della donna che canta (meglio se in riva al mare) struggendosi per l’amante lontano richiama tanti esempi diffusi, all’epoca del nostro epitalamio, ormai in tutta la letteratura romanza. La strofa sembra in questo caso provenire da una canzone molto più autenticamente popolare dei raffinati esempi letterari riscontrabili nelle Cantigas d’amigo o nelle chansons de toile, ma la volontà di chiudere l’epitalamio con questa immagine femminile che sospira d’amore in riva al mare pare il sigillo erudito di un autore che conosce e allude a tutta una tradizione, quella della canzone di donna, non estranea nemmeno alla letteratura ebraica, soprattutto sefardita.30

Infine, occorre spendere qualche parola sulla metrica. Piyyuṭ na’eh è uno zadjal: lo schema è ZZ/aaaZ/bbbZ in cui un distico a preludio dà la rima al verso fisso. All’epoca in cui questo epitalamio fu composto, la strofa zagialesca risultava già ampiamente impiegata sia nella lirica romanza sia in quella ebraica.31 Se piyyuṭ na’eh – come probabile – è un contrafactum, arrangiato sulla musica di un testo preesistente (fenomeno, questo, diffusissimo presso gli ebrei sefarditi) (Treves, 2011, p. 11) possiamo dedurre che questo fosse uno zadjal, o ebraico o romanzo. Lazar sostiene che il modello fosse una canzone popolare catalana o provenzale, e ciò sembrerebbe verisimile anche perché la melodia non ebraica avrebbe dato un ulteriore tocco di popolaresco al testo, cosa che l’autore ricerca programmaticamente a più livelli.

Quello che pare sicuro, infatti, è che piyyuṭ na’eh di popolare, o meglio, ‘popolareggiante’, ha ormai solo la parvenza, ottenuta dal suo erudito autore attraverso la musica, le atmosfere e i personaggi, in particolare quello femminile; ma soprattutto attraverso “l’uso ‘colto’ del registro basso” (Rosenzweig, 2011, p. 43). Questo ‘espressionismo linguistico’ dato dalla vivace dinamica delle due componenti del giudeo-catalano permette, infine, “una trasgressione ‘educata’, letterata” che “mette in discussione […] tutti i codici espositivi: deformandoli con accostamenti inauditi” (Segre, 1979, pp. 70-71).

5. ALCUNE RIFLESSIONI CONCLUSIVE

L’epitalamio piyyuṭ na’eh è un testo estremamente interessante dal punto di vista letterario, stilistico e linguistico, per le tante finestre che apre su un mondo, quello degli ebrei catalani tra XIV e XV secolo, ancora in parte inesplorato (Baum, 2016, p. 167) non solo rispetto ai numerosi contatti, in termini di fruizione letteraria, con il mondo ebraico di Spagna e di Provenza, ma anche con quello gentile. Abbiamo visto, infatti, che le fonti ebraiche sono – o perlomeno sembrano – importanti e ricche quanto quelle romanze, in particolare per quanto riguarda il genere della Pastorella (e il sottogenere della malmaritata) e della canzone di donna.

A questo proposito, può essere di qualche interesse ricordare quanto afferma Fudeman sulla performance degli epitalami giudeo-francesi nell’ambito dei festeggiamenti dopo le nozze: la studiosa vede, nella recitazione di questi testi, la rappresentazione per la collettività di un mondo ideale, localizzato in un passato leggendario e glorioso, in cui sposo e sposa, nelle vesti di un cavaliere valente e della sua dama, sono protagonisti assoluti, con tutta la loro potenza e bellezza. La comunità esorcizzerebbe così, nella finzione scenica, la condizione difficile e precaria in cui invece, purtroppo, era costretta a vivere (Fudeman, 2010, pp. 145-150).

Nel caso di piyyuṭ na’eh, la mimesi non è tanto epico-cavalleresca, quanto comica, e il rapporto tra sposo e sposa evoca, come s’è visto, più quello di una malmaritata o di una pastora con il suo spasimante (per quanto a ruoli invertiti), che gli amanti di un romanzo cavalleresco. Eppure, non muta l’idea secondo cui l’epitalamio sarebbe uno spazio scenico, in cui i personaggi maschile e femminile giocano un ruolo dalla forte connotazione letteraria. La diversità di genere a cui si ispirano gli epitalami giudeo-francesi e quello giudeo-catalano ci dà piuttosto un interessante prospettiva su che tipo di letteratura in lingua romanza prediligessero gli ebrei francesi e catalani, o perlomeno in quale si rispecchiassero di più. Senza dimenticare che gli altri quattro epitalami giudeo-catalani a noi noti non sono testi comici, la presenza, per quanto unica, di piyyuṭ na’eh può valere come spia di una tendenza.32 Al Nord la letteratura cavalleresca è il modello ideale, mentre al Sud hanno più fortuna i testi comici e le parodie; in entrambi i casi non sorprende: il genere della parodia nella letteratura ebraica nasce a fine XIII secolo in Spagna e si diffonde all’inizio del XIV in Provenza (Davidson, 1907, pp. 15 e ss.; Cohen, 2021, pp. 227-231); anche il giudeo-provenzale Roman d’Ester, per esempio, è un testo comico, che in vari punti diventa pura parodia (Piudik, 2014, pp. 243-250). Per quanto riguarda la produzione in giudeo-francese, invece, non si deve dimenticare che il suo epicentro è lo stesso del romanzo cavalleresco, di cui gli ebrei ashkenaziti erano peraltro grandi cultori.33

Dal punto di vista linguistico, si è visto inoltre come la riproduzione per intenti comici del ‘linguaggio di famiglia’ diventi, a saperla leggere, una preziosa testimonianza linguistica del catalano parlato all’epoca dagli ebrei. A questo punto, sorge una questione e la sua relativa risposta:

Do these songs demonstrate that the language of the Jews differed greatly from that of their Christian neighbours? Probably not, but it certainly was not identical. The code-mixing rich in Hebrew vocabulary, alongside sophisticated word-plays (or code-switching) between the two languages would be “lost in translation” to a Christian ear (Baum, 2016, p. 197).

Farei un’aggiunta: il catalano degli ebrei poteva non essere identico a determinati livelli diafasici della lingua, in particolare nella comunicazione domestica: in un discorso con un cristiano, si sarebbe mantenuto un livello meno ‘ebraicizzato’ del linguaggio (a meno di non avere la necessità di ricorrere a un gergo)34 e più vicino, per non dire identico, al ‘catalano comune’. In un discorso con la famiglia o con altri membri della comunità, invece, si sarebbe ricorsi a un registro più confidenziale e ben più ricco di termini ebraici: tecnicismi del culto, in primis, ed anche parole dal significato connotato, espressioni miste, eufemismi.

Piyyuṭ na’eh, proprio perché si situa in modo unico all’incrocio tra scritto e orale,35 ci informa su questo strato diafasico altrimenti poco o affatto testimoniato per quest’epoca, perché sentito come pertinente a un’oralità volatile, fatta di parole che sono havalim, ‘vanità’, vanvere, discorsi effimeri, non adatte ad essere registrate nello scritto: salvo in rare, felici, eccezioni.

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1 Mail: erica.baricci@gmail.com. Rothschild Fellow presso l’Università degli Studi dell’Insubria, Como-Varese, Dipartimento di Scienze Umane e dell’Innovazione per il Territorio. Legal Head Office: Via Ravasi 2, 21100 Varese.

2 L’uso, senz’altro estendibile ad altri rituali, compreso quello catalano-provenzale, è noto dalla liturgia ebraica della Francia del Nord. Ne abbiamo conoscenza da una aggiunta in un manoscritto del Maḥzor Vitry (il libro della liturgia delle comunità ebraiche della Francia del Nord), lo stesso che attesta uno dei due epitalami in giudeo-francese (El giv‛at ha-Levonah, “alla collina dell’incenso”: New York JTSA, ms. 8092, f. 160v) giunti fino a noi; l’altro è: ’uri liqra’ti yafah, gentis kallah einoreie (“vieni a me, bella, nobile e onorevole sposa”: Zürich, Zentralbibliothek Zürich, ms. Heid. 51, ff. 212v-231r, un codice miscellaneo). Cf. Blondheim (1926, pp. 17-36), Fudeman (2010, p. 132), Edzard (2014, pp. 78-98).

3 Con giudeo-catalano intendo il catalano trascritto in caratteri ebraici e (come vedremo a breve) arricchito in varia misura di parole ebraiche. Per la questione, cf. Baum (2016, pp. 167-170; 185-197). Il (giudeo-)catalano del testo presenta una lieve patina provenzale da attribuire in parte ai copisti, in parte alla tendenza, forte anche nei poeti ebrei catalani, di imitare la poesia dei Trovatori (Baum, 2016, p. 169), con rimando a Schirmann, 1997, pp. 293-308). Lo stesso vale per gli altri quattro epitalami giudeo-catalani conservati nei medesimi manoscritti.

4Riera (1974, pp. 11-12). Biblioteca Nazionale Universitaria di Gerusalemme 8° 3312, ff. 14v.-16r, e Oxford, Bodleian Library, Lyell 98, f. 161. Si tratta in entrambi i casi di manoscritti che raccolgono un centinaio di poemetti liturgici in ebraico, oltre agli epitalami giudeo-catalani di nostro interesse.

5 La provenienza iberico-provenzale è dedotta per entrambi i codici dalla grafia sefardita, comune a Spagna e Midi francese – il manoscritto di Oxford è scritto in una corsiva sefardita che Riera (1974, p. 11) data al XV secolo; il manoscritto di Gerusalemme è scritto in una quadrata sefardita e riporta la data del 5211 dalla Creazione del mondo (= 1420-1421). L’ulteriore circoscrizione alla Provenza è data dal fatto che alcune benedizioni contenute nel manoscritto sono proprie del rito ebraico provenzale (ibidem). Il manoscritto di Gerusalemme è stato studiato da Pagis (1970, pp. 257-284) ed è consultabile online all’indirizzo: https://www.nli.org.il/en/manuscripts/NNL_ALEPH000043286/NLI?volumeItem=1#$FL36871049. Al codice di Oxford accenna Roth (1944-1945, pp. 367-368), dicendo che tra l’altro contiene “remarkable compositions in Judeo-Catalan to be recited at wedding”.

6 Oltre a piyyuṭ na’eh, gli altri epitalami giudeo-catalani sono: Šir našir ‘cantiamo un canto’, epitalamio per lo sposo, attribuito a un certo Rabbi Natan (forse da identificare con Rabbi Mosheh Natan di Tàrrega, 1290-1360? Cf. Baum (2016, pp. 170-171), come probabilmente il suo gemello, destinato però alla sposa, Šir ḥadaš la-kallah (‘un canto nuovo per la sposa’). Questi epitalami sono testimoniati da entrambi i codici; sono invece conservati solo nel manoscritto oxoniense: Šir našir la-ḥatan (‘cantiamo un canto allo sposo’), attribuito a un Maestre Bonafós, come anche il seguente canto per la sposa, Šir našir la-kallah ‘cantiamo un canto per la sposa’. Gli epitalami testimoniati in entrambi i manoscritti presentano alcuni errori disgiuntivi di copia, ma non si tratta mai di varianti significative (Baum, 2016, p. 168).

7Lazar (1970, p. 160) li data tra la seconda metà del XIV secolo e gli inizi del XV; Riera (1974, p. 9) tra 1340 e 1420.

8 TB, Sanhedrin 76a. Vd. infra.

9 Questa è l’opinione espressa in BT, Sanhedrin 76a da Rabbi Mani e Rabbi Eliezer. Argentier (2001, pp. 382-383) nota come piyyuṭ na’eh sia una riproposizione in chiave letteraria e faceta del tema della illegittimità del concubinato, molto discusso negli ambienti ebraici catalani del XIII secolo. Rabbi Yonah Girondi (ca. 1200-1264) fu infatti il primo a promulgare il divieto del concubinato e di qualsiasi relazione sessuale al di fuori del matrimonio, divieto ribadito in un responsum di Rabbi Shlomoh ibn Adret (Barcellona, 1235-1310 ca.), il quale sottolinea l’importanza del matrimonio come rito e atto legale. Argenter (ivi) sostiene, a ragione, che tale interesse per la questione sia da imputare al “mystical-ascetic movement represented by the Kabbalists, along with ethical-social tendencies in the 13th century”.

10Baum (2016, pp. 168-169). Nell’edizione Riera sono pubblicati tutti e cinque gli epitalami giudeo-catalani a noi noti.

11 In questa sede si dà direttamente la trascrizione in caratteri latini, basata sui criteri esposti in Baum (2016, pp. 172-174), che a sua volta riprende la trascrizione di Riera (1974) secondo l’ortografia catalana. Per la traslitterazione del testo originale in caratteri ebraici, si veda Riera (1974, pp. 16; 18) e, più recentemente, Baum (2016, p. 172, n. 21). Per la trascrizione dell’ebraico, ho adottato il seguente sistema. Non si indicano le vocali brevi e quelle lunghe. L’articolo determinativo ha- è prefisso alla parola con un trattino, senza il raddoppiamento della consonante iniziale. Lo stesso vale per le altre particelle inseparabili (per es. be-; ba-; we-). א (’) (non iniziale né finale, solo in corpo di parola); בּ, ב (b, v); גּ, ג (g) (sempre occlusiva velare); דּ, ד (d); ה (h); ו (w); ז (z) (da pronunciare fricativa alveolare sonora); ח (ḥ); ט (ṭ); י (y); כּ, כ, ך (k, kh); ל (l); מ,ם (m); נ, ן (n); ס (s) da pronunciare fricativa alveolare sorda); ע (‘); פּ, פ, ף (p, f); צ, ץ (ṣ); ק (q); ר (r); שׂ (ś) (da pronunciare fricativa alveolare sorda); שׁ (š); תּ, ת (t).

12 L’espressione hoša‘na rabba significa ‘grande salvezza’ ed è il nome del settimo giorno della festa di Sukkot (15-22 del mese ebraico di Tišri, equivalente a settembre-ottobre). Durante il rito in sinagoga si devono compiere sette giri con il Sefer Torah (‘rotolo della Torah’) mentre si recitano le hoša‘not, le preghiere specifiche del rito. In conclusione, vengono gettati per terra cinque rami di salice per cinque volte consecutive. Per tale ragione, hoša‘na assume qui il significato di ‘ramo’, con un doppio senso acutamente dissacrante.

13Baum (2016, p. 175) nota che si tratta di sostantivi e sintagmi, ma che vi è un basso livello di fusione linguistica tra l’ebraico e il catalano. Infatti, non vi è quasi mai flessione (femminile, plurale, forme verbali, etc.), a parte rari casi (gedolim, mešalim, havalim, na‘arah, ‘al teḥallel), a differenza di quanto avviene nei Jewish Languages riconosciuti come tali, in cui le parole presentano varie suffissazioni e spesso sono ‘misti’ (base lessicale ebraica + suffisso romanzo). Se è indubbiamente vero che questo tipo di fusione linguistica manca, occorre però aggiungere che si tratta di un fenomeno attestato sistematicamente solo nella fase moderna degli idiomi giudeo-romanzi, quindi almeno dopo il XVI secolo (Mayer Modena, 1999, pp. 103-106). Ritengo, al contrario, che la connessione sintattica che intrattengono ebraico e catalano nel discorso (i termini ebraici, per esempio, possiedono articoli catalani o sono introdotti da preposizioni catalane), sia già (per questa altezza cronologica) un segno notevole di come la componente ebraica fosse integrata nel catalano degli ebrei, e sentita come parte di esso.

14 A proposito degli epitalami giudeo-francesi, Fudeman (2006, pp. 543-559, ripreso in Fudeman, 2010, pp. 133-135) ipotizza che la farcitura ebraica costituisca l’esplicitazione del contenuto erotico (che nelle parti in francese è molto più velato) del testo, e che questo accada perché solo gli uomini istruiti nella lingua sacra potessero cogliere le allusioni.

15 Il testo non è datato precisamente, ma deve essere stato scritto nella seconda metà del Cinquecento e non oltre il 1587, anno della morte dell’autore, salvo forse la parte finale che l’editrice suppone essere un’aggiunta del copista (Mayer Modena, 2001, p. 311).

16 Cf. Talmud Babilonese, Megillah 7b.

17 Cf. Mayer (2001, p. 311) in riferimento alla Massekhet ḥamor, ma è un discorso adeguato anche a piyyuṭ na’eh.

18 La parola gevurah ha anche uno specifico significato qabbalistico. Indica infatti la quinta delle dieci sefirot, le ‘emanazioni’ di Dio secondo lo Zohar, e corrisponde all’attributo divino della potenza. Ciò detto, non mi sembra che nel passo in questione vi sia alcuna connotazione mistica (per quanto parodiata) data al termine, anche se questa sfumatura semantica era sicuramente ben presente all’autore e al suo pubblico.

19 Per un caso analogo in cui, in contesto parodico, il termine romanzo è affiancato all’equivalente ebraico, quasi si trattasse di una glossa, si veda Baricci (2022, pp. 42-44), a proposito dei vv. 286-90 del giudeo-provenzale Roman d’Ester. Lì la parodia della prassi esegetica di glossare i termini ebraici con l’equivalente romanzo (la‘az) è manifesta. In piyyuṭ na’eh sembra quasi un ‘automatismo’ dell’autore che, abituato a farlo in ambito scolastico, integra il verso con il ‘doppione’ romanzo del termine ebraico.

20 Cf. Roncaglia (1988, p. 97): “Romanz = genericamente ‘discorso in volgare’; e da quest’uso deriva l’italiano ramanzina, per assimilazione vocalica regressiva da romanzina, ‘discorso di rimprovero’, in cui una saggezza antica (di chi ha studiato, conosce le opere dei latini, e può rivestirsi dell’autorità che da tale conoscenza promana) s’applica a correggere e ad ammaestrare (in volgare) chi è sprovveduto d’esperienza e di cultura.”.

21 Nella Massekhet ḥamor, havalim nel senso di ‘parole effimere’ assume il senso specifico di ‘lingua volgare’ (Mayer Modena, 2001, p. 315).

22 È ciò che Max Weinreich, basandosi sullo Yiddish, definì “merged Hebrew” (“The Hebrew component in any of the Jewish Languages”, Weinreich 1954, p. 85) in opposizione al “whole Hebrew” (“The language of the running Hebrew texts read (by sight or memory) by a speaker of a Jewish Language (whose everyday language, by definition, is not Hebrew)”, ibidem). Si veda anche Bunis (2013, pp. 37-40).

23Mayer (1999, pp. 103-104) nota, esaminando le fonti ‘esterne’ del giudeo-italiano per l’epoca rinascimentale (le scene all’ebraica della commedia all’improvviso), in rapporto alle fonti ebraiche, che “l’interférence était déjà beaucoup plus riche dans la langue parlée: le théâtre italien la reflète fidèlement, tandis que les auteurs juifs qui se sont décidé enfin à se servir du volgare [...] sont encore difficiles là-dessus [...] le mot est accepté dans un texte, mais avec réserve, comme un citation : puis il entrera définitivement dans l’usage.”.

24 Soprattutto in questo caso mi sembra che si possa in parte attenuare l’opinione di Baum che tra le due componenti non vi sia fusione linguistica (Baum, 2016, p. 175).

25Baum (2016, p. 174) ne parla rispetto al tabù sessuale. In realtà l’impiego dell’ebraico in funzione eufemistica è molto più ampio e non è solo un fatto stilistico dovuto alla parodia, bensì un fenomeno linguistico sistematico, che Mayer (1978) ha studiato a fondo per quanto riguarda il giudeo-livornese e, in generale, le parlate giudeo-italiane, ma che è estendibile anche ad altri Jewish Languages.

26Riera (1974, p. 9) afferma al contrario che “l’autor d’aquest cant popular no tenia gaires pretensions”, ma come vedremo, non si tratta propriamente di un canto ‘popolare’, quanto ‘popolareggiante’, e come tale è testo finissimo e ricercato, che attinge con sapienza a fonti sia romanze sia ebraiche.

27 Sulla Pastorella come genere drammatico, vd. Lazzerini (1994, p. 320).

28 Si noti, tra l’altro, che na‘arah in ebraico biblico significa ‘ragazza’, ma può significare anche ‘serva’ (cf. Gesenius, 1846, p. 546, s.v. na‘arah, consultabile online: http://www.tyndalearchive.com/TABS/Gesenius/). Posto che l’autore stia giocando volutamente sulle varie sfumature del termine, la scelta di definire la sposa na‘arah e non, per esempio, kallah (che significa ‘sposa’ e che è il termine impiegato sia negli altri quattro epitalami giudeo-catalani sia in quelli giudeo-francesi), oltre a metterne in rilievo la giovine età rispetto al marito, potrebbe suggerire un rapporto socialmente impari tra l’uomo (il vecchio) e la donna (la servetta), che ricalcherebbe ulteriormente il modello poetico della Pastorella.

29 Questo accade per esempio nelle traduzioni dei Siddurim, i libri di preghiera, o nei Sifré Miṣwot, testi di spiegazione dei precetti (miṣwot) in lingua volgare, rivolti alle donne “quali per lo più non capiscono vocaboli eleganti, non volgari, discosti dall’uso donnesco” (dalla prefazione di R. Joseph Nizza alla traduzione italiana di Ya ‘aqov Heilbronn del Sefer Miṣwot Nashim di Slonik (ed. 1710), in Mayer Modena, 1999, p. 96). Anche il Roman d’Ester è pensato per le donne, come dichiara apertamente l’autore, Israel Caslari, in principio al poemetto in ebraico Mi kamokha (‘chi è come te?’), che con il romanz giudeo-provenzale, suo gemello, forma un dittico: entrambi i testi raccontano la storia di Ester, ma sono orientati su un pubblico diverso, come rivela, su tutto, la diversa scelta linguistica: “the former is intended for those who speak the vernacular language, children, women, grandchildren, great grandchildren and the rest” (ללועזות בלעז טף ונשים ונין ונכד ושאר), the latter “for the Jewish men” (לעברים) who know the Holy tongue” (Baricci 2022, pp. 4-5).

30 Si pensi per esempio alle ḫarǧat a chiosa delle muwaššaḥat composte in lingua ebraica dai maggiori poeti ebrei di Spagna (da Shemuel ha-Naggid, a Yehudah ha-Levy, Todros Abulafia, etc.). Senza entrare nel merito dell’origine, dotta o popolare, araba o romanza, delle ḫarǧat, basti qui ricordare come l’immagine della fanciulla che sospira per l’amato, assente o lontano, sia una delle più diffuse. Per una panoramica abbastanza recente e completa sull’argomento, vid. Zwartjes, 1997. Sulla figura femminile nella poesia ebraica del Medioevo spagnolo, vid. Sáenz-Badillos, Targarona (2007), pp. 181-212

31 Si vedano rispettivamente Meneghetti (1997, pp. 177-185) e Fleischer (1980, p. 843).

32 Gli altri quattro epitalami, pur essendo oggetto di analisi e contestualizzazione, insieme a piyyuṭ na’eh, negli studi citati in apertura al presente contributo, attendono ancora di essere esaminati in dettaglio da un punto di vista sia letterario sia linguistico-stilistico.

33 Per il rapporto degli ebrei ashkenaziti, francesi e tedeschi, con la letteratura cavalleresca si veda Leviant (2003, pp. 56-57). Per quanto riguarda la produzione, in yiddish, di romanzi cavallereschi, vid. Rosenzweig (2015, pp. 53-58). La stessa studiosa, in un contributo del 2011 sul Purimshpil, parla invece della parodia nella letteratura yiddish tra Medioevo e prima età moderna. Riguardo alla relazione tra cultura ashkenazita nel Medioevo e letteratura cavalleresca, si veda anche Liss-Dörr, 2022.

34Mayer (1978, pp. 174-175).

35 Come nota Baum (2016, pp. 196-197), infatti, la libertà di un testo letterario giudeo-catalano, rispetto alle convenzioni stilistiche sia del catalano tout court (che risente del latino e di una conseguente standardizzazione molto forte della lingua) sia dell’ebraico (la lingua ‘alta’ della letteratura, della scienza, della religione) ci consente di recuperare più facilmente tratti del linguaggio parlato, perché molto meno filtrati dalla tradizione e dalle convenzioni letterarie.