TRADURRE ESTER IN (GIUDEO-)PROVENZALE TRA SPIRITUALITÀ, ESEGESI BIBLICA E INDAGINE LINGUISTICA
TRANSLATING ESTHER INTO (JUDEO-)PROVENÇAL BETWEEN SPIRITUALITY, BIBLICAL EXEGESIS AND LINGUISTIC INVESTIGATION
Erica Baricci1
Fechas de recepción y aceptación: 1 de diciembre de 2023 y 16 de marzo de 2024
DOI: https://doi.org/10.46583/specula_2024.9.1131
Vos veires e trobares que Dios l’ac estujada el temz qu’auzires.
[voi vedrete e comprenderete che Dio collocò questa vicenda nel tempo di cui ascolterete]
Ma‘asè Ester, vv. 84-85
Riassunto: Il libro di Ester nella tradizione ebraica riveste un ruolo estremamente importante. Esso insegna come, con l’aiuto di Dio, è possibile che un evento disastroso, come il piano architettato dal perfido ministro Haman per distruggere il popolo ebraico, si ribalti in un evento gioioso e riservi un lieto fine. Per questa ragione, nella storia ebraica, troppo spesso segnata da persecuzioni ed emarginazione, le vicende narrate in questo libro biblico divennero un fondamentale modello di pensiero e comportamento, per dare speranza e conforto al popolo. La memoria di questi eventi si rinnova ogni anno nella festa di Purim, il cui evento centrale è la lettura della Megillat-Ester (“il Libro di Ester”). Nella Provenza della prima metà del Trecento, il tema di Ester comincia a ricevere un’attenzione particolare. In quest’epoca e luogo sono composti testi in ebraico, come trattati esegetici, poesie religiose, parodie, ed anche parafrasi in giudeo-provenzale del libro biblico. Queste parafrasi, in versi e in rima, sono rielaborazioni letterarie pensate per essere recitate durante la festa di Purim. In questo contributo, sono analizzate le varie possibili rese in giudeo-provenzale dei versetti 1-6 del primo capitolo del Libro di Ester. Questi primi versetti, che descrivono la città di Susa e i banchetti che il re approntò nel giardino del suo palazzo, sono stati ampiamente commentati e diversamente interpretati, per via della loro difficoltà, dovuta alla sinteticità dell’originale e all’abbondanza di termini rari e oscuri. Attraverso una indagine comparata sulle scelte traduttorie e sulle fonti, risulta chiaro come queste parafrasi, per quanto create per un intento letterario e performativo, riflettano al contempo le posizioni degli autori in materia di esegesi del testo biblico. Infine, è presentata anche la traduzione provenzale “cristiana” di Est. 1:1-6, conservata nel ms. Paris, BNF, 2426 (XV sec.). La comparazione tra versioni provenienti da ambienti tanto diversi permette di cogliere come la traduzione sia un processo condizionato dal contesto del traduttore, dal messaggio che egli vuole veicolare, dalla tradizione in cui si riconosce. Tuttavia, a ispirare tanti testi su Ester (cristiani ed ebrei) nella Provenza tra Trecento e Quattrocento, potrebbe essere stata anche una identificazione tra re Assuero e il suo lussuoso palazzo nella capitale Susa e la corte pontificia di Avignone.
Parole chiave: Ester, giudeo-provenzale, Ma‘asé Ester, Roman d’Esther, Kalonymos ben Kalonymos, Bibbia in provenzale, Bible d’Acre.
Abstract: The Book of Esther plays an extremely important role in Jewish tradition. It teaches how, with God’s help, it is possible that a catastrophic event, such as the evil plan devised by the minister Haman to destroy the Jewish people, can turn into a joyful event and reserve a happy ending. For this reason, in Jewish history, too often marked by persecution and marginalization, the events narrated in this biblical book became a fundamental model of thought and behavior, to give hope and comfort to the Jewish people. The memory of these events is renewed every year during the feast of Purim, whose central event is the reading of the Megillat-Ester (“the Book of Esther”). In Provence, in the first half of the fourteenth century, the theme of Esther began to receive particular attention. In this time and place, texts in Hebrew were composed, such as exegetical treatises, religious poems, parodies, and even Judeo-Provençal paraphrases of the biblical book. These paraphrases, in verse and rhyme, are literary elaborations composed to be recited during Purim. This contribution analyses the various possible renderings in Judeo-Provençal of Est. 1:1-6. These first versets, which describe the city of Susa and the banquets that the king prepared in the garden of his palace, have been widely commented on and interpreted differently: in fact, they are particularly difficult, due to the conciseness of the original and the abundance of rare and unclear terms. Through a comparative investigation of translation choices and sources, it is clear how these paraphrases, although created for a literary and performative intent, at the same time reflect the authors’ positions regarding the exegesis of the biblical text. Finally, the Provençal “Christian” translation of Est. 1:1-6, preserved in the ms. Paris, BNF, 2426 (15th century) is also presented. The comparison between versions coming from such different environments allows us to understand how translation is a process conditioned by the context of the translator, the message he wants to convey, and the tradition in which he/she recognizes himself. However, what inspired many texts (Christians and Jewish) on Esther in Provence between the fourteenth and fifteenth centuries, may also have been an identification between King Ahasuerus and his luxurious palace in the capital Susa, and the papal court of Avignon.
Keywords: Esther, Judeo-Provençal, Ma‘asé Ester, Roman d’Esther, Kalonymos ben Kalonymos, Provençal Bible, Bible d’Acre.
1. ESTER NELLA TRADIZIONE EBRAICA: SAPIENZA E SPIRITUALITÀ
Il libro di Ester racconta una delle vicende più appassionanti e suggestive della Bibbia. Ambientata presso una non meglio definita corte persiana di epoca achemenide, questa novella biblica narra di come Ester, ebrea di Susa divenuta regina e moglie del re Assuero, riesca, insieme al cugino Mordekhay, a salvare il suo popolo dal massacro ordito da Haman, cattivo consigliere del re. Alla fine sulla forca penderà Haman con i suoi figli, mentre gli ebrei avranno salva la vita e trionferanno sui loro nemici. Il Libro di Ester si conclude con l’istituzione della festa ebraica di Purim, una festa allegra che cade tra febbraio-marzo (precisamente il 14 del mese ebraico di Adar) e celebra l’insperato trionfo degli ebrei persiani e la salvezza dal diabolico piano di Haman.
È facile comprendere quanta importanza questa narrazione abbia rivestito nella storia degli ebrei della Diaspora. Costretti a sottostare al volere di potenti e sovrani, spesso soggetti a trattamenti ingiusti e a persecuzioni, gli ebrei videro nella storia di Ester un potente segno di fede e speranza, perché essa raccontava che il lieto fine è sempre possibile con l’aiuto di Dio.
Per tale ragione, sin da epoca rabbinica, leggere la storia di Ester a Purim e comprenderne il senso profondo divenne un elemento imprescindibile della festività (Talmud Bavlì, Megillah 2a). Tuttavia, nella Diaspora, l’ebraico non era più la lingua parlata dagli ebrei nella quotidianità, mentre si manteneva come lingua scritta della cultura e come lingua della liturgia (Hadas-Lebel, 1994, pp. 73-74). Era impensabile che un pubblico di gente raccolta a festeggiare il Purim comprendesse questa lettura in ebraico. Nacquero quindi le traduzioni del libro, prima in aramaico e poi nelle varie lingue parlate localmente dagli ebrei.2
Tradurre implica prima di tutto un’opera di interpretazione e, in effetti, le traduzioni del libro di Ester (e non solo di Ester) nella tradizione ebraica non sono mai rese letterali del testo originale, bensì parafrasi e rielaborazioni. In particolare, i passaggi poco chiari del testo biblico, nel momento della traduzione, vengono espansi e appianati per mezzo del midraš.3 Il midraš è un metodo esegetico che consiste nell’interrogare il testo nei suoi punti enigmatici o oscuri, integrando il racconto originario con narrazioni che ne chiariscono il senso.4 Ecco un esempio: nel libro biblico di Ester si dice che Mordekhay era l’unico suddito a non inchinarsi al cospetto del malvagio Haman, divenuto il ministro più potente del re, ed è per questo che Haman cominciò a odiare Mordekhay e tutto il suo popolo e meditò di nuocergli organizzandone il massacro (Est. 3: 2-6). I maestri della tradizione rabbinica si chiesero dunque perché Mordekhay non volesse inchinarsi al cospetto di Haman: non è scritto. Ne nacquero varie possibili spiegazioni, ovvero dei midrašim: si suppose per esempio che Haman portasse al collo la statuetta di un idolo e perciò il giusto Mordekhay non si inchinò, per non commettere idolatria.5
Il libro di Ester ricevette una particolare attenzione da parte dell’esegesi rabbinica anche perché è l’unico libro della Bibbia (insieme al Cantico) che non menziona mai esplicitamente il nome divino. Ai tempi della chiusura del Canone biblico, verso la fine del I secolo d.C., i maestri si interrogarono a lungo sulla sacralità di questo libro così laico, che, oltre a non nominare mai Dio, celebra il coraggio di una donna ebrea, sposa, perdipiù, di un gentile, il re Assuero. La sua “patente di sacralità” era decisiva per includerlo nel Canone, cosa che alla fine fu fatta, per fortuna: il messaggio di fede, coraggio e speranza che il libro di Ester conteneva era troppo importante, con la prospettiva dell’esilio davanti, per essere ignorato; tuttavia, fu necessaria una sottilissima e profonda rete di interpretazioni in senso morale e spirituale per portare allo scoperto la sacralità di questo testo: la presenza divina, si disse, è una costante di tutta la narrazione, ma è nascosta, esattamente come Ester nascose a corte la sua identità di ebrea per poter provvedere al suo popolo (Ginzberg, 2019, p. 998). Lo stesso nome di Ester, che in realtà deriva dal persiano ed è probabilmente una forma ebraizzata di Ishtar,6 nome della dea principale del pantheon orientale, fu rietimologizzato per dargli un senso rispetto al tema del nascondimento. La radice da cui deriverebbe in ebraico è סתר (s.t.r.) “nascondere”: dunque Dio nel libro di ESTeR è niSTaR (נסתר) “nascosto” (cfr. Talmud bavlì, Ḥagigah 5b), ma pur restando nascosto ha cura di salvare il Suo popolo per mano di Ester e Mordekhay.
2. IL TEMA DI ESTER NELLA PROVENZA EBRAICA DEL XIV SECOLO
In questo contributo, ci concentreremo in particolare sulla Provenza ebraica della prima metà del Trecento. Improvvisamente, infatti, in quest’epoca e luogo si assiste a un fiorire del tema di Ester (Baricci, 2022, pp. 4-12). Sono composti importanti trattati esegetici e alcuni piyyuṭim, ovvero poemetti liturgici in ebraico; inoltre, alla festa di Purim, che ha ormai assunto tratti carnevaleschi, è associato il neonato genere letterario in ebraico della parodia: si usa il linguaggio normativo del Talmud, mezzo ebraico mezzo aramaico, per scrivere trattati umoristici che assegnano norme e prescrizioni assurde, degne del “mondo alla rovescia” che è legittimato dal Purim (Cohen, 2021). Non solo: sono composte anche alcune parafrasi poetiche, in giudeo-provenzale, del Libro di Ester.7 Ad oggi sono due le parafrasi giudeo-provenzali a noi note, ma è molto probabile che ne esistessero altre. Tutto lascia supporre infatti che in Provenza, nella prima metà del XIV secolo, esistesse e si stesse consolidando una tradizione di rielaborazioni letterarie in giudeo-provenzale del libro di Ester (Baricci, 2022a, pp. 64-70).
I due testi in questione sono il Roman d’Esther di Israel Caslari, datato ai primi anni Quaranta del XIV secolo,8 e il Ma‘asé Ester, adespoto ma forse attribuibile a Kalonymos ben Kalonymos (Arles, 1286-post 1328), e composto verosimilmente sul finire degli anni Venti del Trecento.9 Entrambi presentano una struttura metrica e rimica, narrano la storia di Ester integrandola con il midraš e, seppur con modalità diverse, vogliono proporsi come bei testi letterariamente godibili.
Si vedano a mo’ d’esempio alcuni versi dell’uno e dell’altro poemetto. Entrambi i passaggi trattano lo stesso snodo narrativo biblico, cosicché sia possibile cogliere, nel confronto, come ciascuno degli autori opera rispetto all’originale, quali sono le analogie e le differenze nella rielaborazione della storia, sia sul piano formale, sia sul piano del contenuto.
È il momento (Est. 2, 1-2; 5; 7) in cui re Assuero si è riavuto dall’ebbrezza e si ricorda di avere messo a morte la sua prima moglie, la regina Vašti, colpevole di aver disubbidito al suo ordine di apparire nuda al cospetto dei suoi dignitari a banchetto. I consiglieri di Assuero gli suggeriscono così di cercarsi una nuova sposa tra le fanciulle del regno. Tra esse, Cenerentola ante litteram, spicca per bellezza e gentilezza Ester, che alla fine infatti sarà la prescelta.
Di seguito compare, innanzitutto, l’originale ebraico, con una traduzione italiana di supporto, e in secondo luogo i brani in giudeo-provenzale tratti dai due testi.10
אַחַר֙ הַדְּבָרִ֣ים הָאֵ֔לֶּה כְּשֹׁ֕ךְ חֲמַ֖ת הַמֶּ֣לֶךְ אַחֲשְׁוֵר֑וֹשׁ זָכַ֤ר אֶת־וַשְׁתִּי֙ וְאֵ֣ת אֲשֶׁר־עָשָׂ֔תָה וְאֵ֥ת אֲשֶׁר־נִגְזַ֖ר עָלֶֽיהָ
וַיֹּֽאמְר֥וּ נַֽעֲרֵֽי־הַמֶּ֖לֶךְ מְשָֽׁרְתָ֑יו יְבַקְשׁ֥וּ לַמֶּ֛לֶךְ נְעָר֥וֹת בְּתוּל֖וֹת טוֹב֥וֹת מַרְאֶֽה
אִ֣ישׁ יְהוּדִ֔י הָיָ֖ה בְּשׁוּשַׁ֣ן הַבִּירָ֑ה וּשְׁמ֣וֹ מָרְדֳּכַ֗י בֶּ֣ן יָאִ֧יר בֶּן־שִׁמְעִ֛י בֶּן־קִ֖ישׁ אִ֥ישׁ יְמִינִֽי
וַיְהִ֨י אֹמֵ֜ן אֶת־הֲדַסָּ֗ה הִ֤יא אֶסְתֵּר֙ בַּת־דֹּד֔וֹ כִּ֛י אֵ֥ין לָ֖הּ אָ֣ב וָאֵ֑ם וְהַנַּֽעֲרָ֤ה יְפַת־תֹּ֨אַר֙ וְטוֹבַ֣ת מַרְאֶ֔ה וּבְמ֤וֹת
אָבִ֨יהָ֙ וְאִמָּ֔הּ לְקָחָ֧הּ מָרְדֳּכַ֛י ל֖וֹ לְבַֽת
[Dopo questi eventi, appena la rabbia del re Assuero cessò, egli si ricordò di Vašti e di che cosa aveva fatto e cosa era stato deciso su di lei. Così gli uomini del re, i suoi servi, dissero: si cerchino per il re giovinette vergini di bell’aspetto […] c’era un uomo giudeo a Susa la capitale, il suo nome era Mordekhay […] egli aveva tirato su Hadassah, ovvero Ester, sua cugina, perché non aveva padre né madre. La fanciulla era bella e graziosa e dalla morte dei suoi genitori Mordekhay l’aveva presa con sé come una figlia (Est. 2, 1-2; 5; 7)]
Ma‘asé Ester |
Roman d’Ester |
Pauzet lo rey e l’ira tenc carriera, penset si: “que ais er [si me mo]lhera!”. Ar diseron sos cavalhes: “om quiera las dau[ze]las que son en la ribiera
car [a]ras vos trairas e meteras en cadiera la qual mais amaras”.
Al rey plac fort [que] sien establidas e dauselas non i foron gequidas. troberon si am una res [polida] [si] tot era un pauc escorolida. (vv. 56-65, cfr. Baricci, 2022a, pp. 86-87)
[Il re cessò la sua ira, che si dileguò, e pensò: che bella cosa se mi sposerò! Allora dissero i suoi cavalieri: si cerchino le fanciulle che sono nel contado presso il fiume, così che voi mettiate in trono quella che vi piacerà di più. Al re piacque molto che le fanciulle fossero stabilite a palazzo e non ne furono tralasciate. Si ritrovarono con una creatura bella anche se era un po’ pallida.] |
Cant lo rei ac perdut s’espoza, Pauzet son vin, tenc se per fol, E de Vasti lo cor di dol. Non sabia con l’avia perduda, ni per om non fon defenduda. Mes que aital es dol de molher Cant cel de copde c’om se fier, Que la dolor passa tantost. Pensem d’un autra, cant que cost; Per que lo rei ben so passet, e de regina far penset. Tot son conselh li van donar Sos messages fezes anar Per donzelas a acampar Entro que·l rei trobes sa par. […] en Suzan, denfre las filhas De las juzieuas, i ac una orfanela Que era paura e mesquenela, mot condela e mot irnela, qu’on apelavan Esterela […] de faiso fon mot polida, mas un pauc fon escolorida; desobre totas fon plus bela. (vv. 354-368; 402-414, cfr. Méjean-Thiolier – Notz-Grob, 1997, p. 152)
[quando il re ebbe perso la sua sposa, finì il suo vino, si considerò folle e si addolorò per Vašti. Non sapeva come l’aveva persa, né che nessuno l’aveva difesa; ma il dolore per una moglie è tale a quello di un gomito ferito: passa in fretta. Pensiamo a un’altra, costi quel che costi; perciò il re ben si riebbe e pensò a scegliere un’altra regina. Tutto il suo consiglio gli suggerì di inviare i suoi messaggeri per radunare fanciulle finché il re trovasse una compagna […] a Susa tra le figlie delle ebree vi era una orfanella povera e miserella, molto graziosa e carina, che chiamavano Esterina. Di viso era molto bellina, ma un po’ pallida; tra tutte era la più bella] |
Al confronto, notiamo che Ma‘asé Ester è più sintetico, mentre Roman d’Esther è ricco di digressioni, descrizioni, aneddoti ed espressioni epidittiche. Anche la forma metrica è differente: Ma‘asé Ester è costituito di quartine monorime di décasyllabes seguite da un distico a rima fissa in -es/as. Uno schema metrico molto simile a quello di un tipo di piyyuṭ, che prende il nome di zulat:11 è ben probabile che Ma‘asé Ester sia un contrafactum di un canto liturgico in ebraico (Baricci, 2022a, pp. 59-63). Roman d’Ester è in couplet d’octosyllabes, in principio si autodefinisce roman (v. 5) e tale è (Silberstein, 1973, pp. 61-63; Piudik, 2014, pp. 191ss. e Baricci, 2022a, pp. 30-36).
Le differenze si spiegano con la diversa destinazione dei due testi: Ma‘asé Ester era pensato per essere recitato durante un banchetto di Purim di fronte ai convitati; dunque, è più conciso perché limitata sarebbe stata l’attenzione del pubblico, peraltro considerando che a Purim è precetto ubriacarsi; pur essendo un testo più leggero di un canto liturgico in ebraico, ancora ne condivide la finalità rituale, come rivelerebbe la forma metrica. Roman d’Ester risponde invece al genere non ebraico e ad ampio respiro del roman e, anche se dichiara di essere stato composto per Purim, va oltre la circostanza festiva e rappresenta, probabilmente, una rielaborazione tutta letteraria concepita per un momento più disteso e una lettura individuale (Baricci, 2022a, p. 65).
Inoltre, Roman d’Ester è comico: la storia di Ester viene affrontata con umorismo; Ma‘asé Ester invece è un testo profondamente serio, per quanto il provenzale gli conferisca un’immediatezza e un’efficacia che di certo l’originale biblico o i poemetti liturgici in ebraico sullo stesso tema non possiedono.
Tra i due testi vi sono però anche delle analogie. La più importante è la presenza in entrambi di spie midrashiche. La più rilevante, nello stralcio esaminato, riguarda il riferimento al pallore di Ester. Il midraš sostiene infatti che Ester, alla corte del re, mangiasse solo vegetali, in modo da non violare la kašerut, né rivelare la sua identità di ebrea, come le aveva suggerito Mordekhay. Questa dieta “vegana”, tuttavia, l’aveva fatta diventare molto pallida (Talmud Bavlì, Megillah 13b). Particolarmente degno di nota è il fatto che la stessa espressione – un pauc escolorida – ricorre in entrambi i passaggi di testo. Questo non è l’unico caso di comunanza di sintagmi tra Ma‘asé Ester e Roman d’Ester. Ciò sembra suggerire che a monte di entrambi vi fosse una tradizione, in buona parte orale, di mises en vers della storia di Ester in giudeo-provenzale, da cui entrambi i testi attinsero e che rielaborarono (Baricci, 2022a, pp. 64-70).
3. NEL LABORATORIO DI TRADUZIONE DEGLI AUTORI: SCELTE LINGUISTICHE E INTERPRETATIVE IN EST. 1:1-6
Analizzeremo ora un passaggio del Libro di Ester per vedere come esso sia rimaneggiato nelle fonti giudeo-provenzali. Entreremo quindi nel laboratorio di traduzione degli autori per vedere a quali risorse, linguistiche ed esegetiche, essi attingano, per rendere l’originale nella lingua d’arrivo. In quali aspetti ciascuno di essi si appoggia alla tradizione? E, all’interno di una particolare tradizione interpretativa, in che modo è espressa la propria originalità?
A tale scopo ho selezionato i primi versetti del Libro di Ester, in cui è descritto il palazzo di Assuero e il suo giardino a Susa durante il banchetto indetto dal re. Si tratta di un passaggio di testo non facile, in ebraico, su cui i commentatori medievali esercitarono ampiamente la loro acribia esegetica, confrontandosi con il testo biblico per trarre una più accurata descrizione di questo setting regale. Variando l’epoca e la provenienza dei commentatori, e di conseguenza la loro esperienza urbanistica e architettonica, varia anche la spiegazione fornita da ciascuno di essi su come si presentassero la città e il palazzo di Susa, il giardino e la sala del banchetto (Walfish, 1993, pp. 95-97). Si tratta quindi anche di un caso estremo di attualizzazione. Ecco il passo biblico in questione:
וּבִמְלאוֹת הַיָּמִים הָאֵלֶּה עָשָׂה הַמֶּלֶךְ לְכָל הָעָם הַנִּמְצְאִים בְּשׁוּשַׁן הַבִּירָה לְמִגָּדוֹל וְעַד קָטָן מִשְׁתֶּה שִׁבְעַת
יָמִים בַּחֲצַר גִּנַּת בִּיתַן הַמֶּלֶךְ
חוּר כַּרְפַּס וּתְכֵלֶת אָחוּז בְּחַבְלֵי בוּץ וְאַרְגָּמָן עַל גְּלִילֵי כֶסֶף וְעַמּוּדֵי שֵׁשׁ מִטּוֹת זָהָב וָכֶסֶף עַל רִצְפַת בַּהַט
וָשֵׁשׁ וְדַר וְסֹחָרֶת
[Est. 1:1-4. E fu al tempo di Assuero, quell’Assuero che era re di centoventisette province, dall’India all’Etiopia. In quel tempo, quando il re Assuero sedeva sul suo trono regale che si trovava a Susa, la capitale, nel terzo anno del suo regno egli fece un convito per tutti i suoi principi e sudditi, i soldati di Persia e Media, i nobili e i principi delle province che stavano al suo cospetto: per mostrare la ricchezza del suo glorioso regno e lo splendore della sua eccellente maestà ci vollero centottanta giorni.
1:5-6. A conclusione di quei giorni, il re fece, per tutto il popolo che si trovava a Susa la capitale, dal più grande al più piccolo, un convito di sette giorni nella corte del giardino del palazzo reale: tappeti bianchi verdi e blu erano sospesi con corde di lino e porpora ad anelli d’argento e colonne di marmo; letti d’oro e d’argento su un pavimento di alabastro, marmo bianco, madreperla e onice…]
Vediamo innanzitutto come la geografia urbana di Susa è interpretata nei principali commentari in ebraico. Lungo il libro di Ester si trova a volte la semplice menzione di Šušan (שׁוּשַׁן), Susa, a volte la precisazione, come nel passo letto, di Šušan ha-birah (שׁוּשַׁן הַבִּירָה), qui tradotto con “Susa la capitale”, e a volte Šušan ha-‘ir (שׁוּשַׁן הָעִיר), cioè Susa “la città”. I maestri si sono detti: se Susa è definita in maniera diversa tramite differenti epiteti, questo deve avere un significato preciso. Alla base di questa considerazione vi è naturalmente l’incrollabile fede nella sacralità della Scrittura: se il testo sacro è ispirato divinamente, nulla è né casuale né errato. Sta all’uomo estrarre la verità. Le interpretazioni, peraltro, saranno infinite, come infinito è Dio da cui proviene la Torah. In questo caso, quindi, con i diversi appellativi ci si riferirebbe a parti diverse della città: una è Susa, una è Susa ha-birah, una Susa ha-‘ir. Resta da stabilire che cosa significhi cosa.
Avraham Ibn Ezra, nella Spagna del XII secolo, è il primo esegeta a occuparsi della questione (Walfish, 1993, pp. 97-100).12 Egli si concentra soprattutto sulla distinzione tra Šušan ha-birah e Šušan ha-‘ir e sostiene per prima cosa che birah voglia dire “palazzo”, non “capitale”.13 Assuero, quindi, siederebbe sul suo trono a Susa, il suo palazzo. Sempre secondo Ibn Ezra, il palazzo di Susa si troverebbe nella città di Elam, perché in Daniele (8:2) è detto:
וָֽאֶרְאֶה֘ בֶּֽחָזוֹן֒ וַיְהִי֙ בִּרְאֹתִ֔י וַֽאֲנִי֙ בְּשׁוּשַׁ֣ן הַבִּירָ֔ה אֲשֶׁ֖ר בְּעֵילָ֣ם הַמְּדִינָ֑ה וָֽאֶרְאֶה֙ בֶּֽחָז֔וֹן וַֽאֲנִ֥י הָיִ֖יתִי עַל־אוּבַ֥ל אוּלָֽי
[Ed ebbi una visione, ed ecco vidi che ero a “Shushan ha-birah” che si trova a Elam la “medinah”. Nella visione mi trovavo presso il fiume Ulai]
Normalmente si traduce: “ero nella capitale Susa che si trova nella provincia (medinah) di Elam”; ma Avraham ibn Ezra ragiona da abitante di una città araba, e in arabo madina significa “città fortificata”. Secondo il nostro esegeta, dunque, il palazzo di Susa (Šušan ha-birah) si troverebbe nella madina, nella città fortificata, di Elam; Susa la città (ha-‘ir) sarebbe invece il quartiere ebraico, che sta fuori dalle mura di Elam. Questo spiegherebbe il senso della frase: “la città di Susa era sconvolta” (Est. 3:15) a seguito dell’editto promulgato da Haman. Difficilmente, dice Avraham ibn Ezra con un pizzico di disillusione, tutti gli abitanti di Susa si sarebbero sconvolti per l’editto contro gli ebrei, ma solo gli ebrei stessi; e ciò significa che “la città di Susa”, costernata per il piano di Haman, è il quartiere ebraico. Ecco uno schema per visualizzare l’impianto di Susa (Fig. 1) secondo ibn Ezra:
Altri commentatori hanno immaginato diversamente la città di Susa. Yiṣḥaq ben Yosef ha-Kohen (vissuto probabilmente a Valencia sul finire del XIV sec., cfr. Walfish, 1993, pp. 223-224), sostiene per esempio che Šušan ha-birah sia la grande capitale e che al suo interno sorga sia il palazzo del re, sia il contado (Šušan ha-‘ir) con il quartiere ebraico, chiamato Šušan (ibidem). Si dà qui (Fig. 2) di seguito uno schema esemplificativo:
Nel passo di Daniele già citato, inoltre, Daniele specifica che nella visione si trovava presso il fiume Ulai. Sulla base di questa precisazione, molti commentatori hanno immaginato: 1. che Šušan ha-birah sia la capitale del regno e sia così chiamata (in alternativa al semplice Šušan, di cui costituirebbe una precisazione), perché in essa sorge il palazzo reale; 2. che Šušan ha-‘ir, “Šušan la città”, sia un sobborgo lì vicino dove sorge il quartiere ebraico; 3. che la capitale e il sobborgo siano separati dal fiume Ulai.14 Si veda lo schema (Fig. 3) seguente:
Ora, tornando alle fonti giudeo-provenzali, in Roman d’Ester la parola Šušan (Susa) è accompagnata da una significativa apposizione:
A cascun feron las liuraias
en Šušan la gran ciutat.
Non i caupron sol la mitat,
mas deforas s’estenderon;
aqi las cors atenderon.
(vv. 72-76).
[a ciascuno attribuirono un lotto di terra in Susa, la grande città. Non vi fu contenuta che la metà delle persone, ma costoro si estesero al di fuori; qui si accamparono le corti]15
Nonostante si tratti di un testo narrativo, non esegetico, Israel Caslari non manca, traducendo in giudeo-provenzale Šušan ha-birah, di schierarsi con una determinata corrente interpretativa: per lui Susa è la “grande città”, ovvero la capitale, all’interno della quale sorge il palazzo e anche il quartiere ebraico, come suggerirebbe un altro passo, quello in cui Ester è presentata: “en Suzan denfre las filhas de las Juzieuas…” (vv. 402-403). Una visione, insomma, molto simile a quella espressa da Yiṣḥaq ben Yosef ha-Kohen. Il fatto che gli accampamenti degli invitati si debbano estendere persino oltre la gran ciutad, dato il loro numero, probabilmente nei campi e terreni fuori Susa, è un’allusione iperbolica all’immensità di questa capitale.
Ma‘asé Ester è meno esplicito a questo riguardo. Il testo è frammentario perché la copia unica che lo ha conservato è rovinata lungo tutti i bordi. La parola Šušan, a quanto è possibile leggere, ricorre una volta sola, al v. 15:
[S]eis mes foron as barons establidas
e mai seyor<s> las fes grans e complidas.
[dedin]s Shushan foron gens mot servidas:
salvizenas, caponcs, aucas rostidas,
samitz polpras e lies dorets (…)
(vv. 13-17)
[per sei mesi i baroni ebbero dimore per accamparsi e mai signore le fece più grandi e perfette. In Susa le persone furono ben servite: selvaggina, capponi, oche arrosto, sete, porpore e letti dorati…]
Nel passaggio non ci sono precisazioni su che cosa esattamente sia Šušan, una città o un palazzo; si dice semplicemente (ma è bene notare che dedins è una congettura) che in Susa la gente fu servita con molta cura: selvaggina, capponi, oche arrosto, giacigli d’oro, etc.; questo però sembra più riferirsi al passaggio biblico che oppone il primo banchetto di centottanta giorni per i nobili del regno (che si accampano con ogni lusso fuori Susa e tutt’intorno alla città)16 al convivio di sette giorni per il popolo nella capitale Susa, dove sorge il palazzo reale.
Vi sono altri due passaggi di testo, tuttavia, che sembrano darci indicazioni sulla topografia della città e sulla casa del re. Innanzitutto, questa viene definita mas, in due passaggi: “esclavas francadas de grans mas”, v. 74;17 “a via davanz mas”, v. 187.18 Il termine mas indica in provenzale una fattoria o una tenuta di campagna,19 mentre in Ma‘asé Ester indica chiaramente il palazzo reale o una casa nobiliare. Possiamo quindi immaginare che l’autore avesse come riferimento immediato una cittadina della Provenza – il manoscritto unico che ci conserva Ma‘asé Ester proviene, per esempio, da Salon de Provence20 – e identificasse il palazzo di Assuero come una magione circondata dalle sue terre. Questo “palazzo-fattoria”, inoltre, sembrerebbe collocarsi a parte rispetto al contado, al di qua di un fiume, coerentemente con la topografia di Susa così come è ricostruita dalle fonti ebraiche sulla base di Ester e Daniele:
Ar diseron sos cavalhes: “om quiera
las dau[ze]las que son en la ribiera”
(vv. 58-59)21
La ribiera allude a mio parere al contado che sorge presso il fiume, dove i corrieri andranno a cercare le potenziali spose per il re.22 Incrociando questi sottili riferimenti, verrebbe da pensare che l’autore di Ma‘asé Ester appartenga a quel gruppo di commentatori che immagina una città-palazzo reale, da un lato, e dall’altro un contado, comprensivo di quartiere ebraico, collocato oltre il fiume. Un assetto urbano non dissimile, del resto, da quello di molte cittadelle provenzali.
Le fonti giudeo-provenzali, su questo punto, non sono terminate. Abbiamo infatti la fortuna di avere un prezioso riferimento anche nel “siddur giudeo-occitano”, ovvero la traduzione del libro delle preghiere di tutto l’anno.23 Nella preghiera ‘al ha-Nissim “per i miracoli”, che è un’aggiunta propria del giorno di Purim alla ‘amidah (ovvero il nucleo centrale della preghiera quotidiana) e alla birkat ha-mazon (la benedizione del pasto), si ringrazia il Signore per i miracoli, appunto, che Egli compì per il Suo popolo nei giorni di Mordekhay ed Ester (e in un’altra versione ai tempi dei Maccabei, perché ‘al ha-Nissim viene recitata anche durante la festa di Ḥanukkah). Segue un breve riassunto delle vicende del libro di Ester:
ʿAl ha-Nissim: sobre las senhas e sobre los vessilhs e sobre las batalhas e sobre la redemzo e sobre l’estorziment que fazes am nostres pairons en los jornz aquels e en lo termini aquest en temz de Mordekhay e d’Ester en Šušan lo palays quant estet sobre elz Haman lo enpi e requerec d’auzir e de perdre totz los juzieus de jove entro velh, familhas e donas en jorn un, en treze al mes de Adar e lur despulhas a menesprezar. E tu per tas piatatz las granz destorbes son conselh e afolhes sas pensadas e fazes tornar a el son guiderdo en son cap e penderon el e sos enfanz sobre la forca. (ff. 101v-102r)24
[Per i miracoli: sui segni e i miracoli e sulle battaglie e sulla redenzione e sulla salvezza che facesti con i nostri antenati in quei giorni e in questa epoca nel tempo di Ester e Moderkhay in Susa il palazzo, quando sopra di loro incombette Haman l’empio e cercò di uccidere e far perire tutti gli ebrei, dal giovane al vecchio, famiglie e donne, in un giorno solo, il 13 del mese di Adar e sprezzare le loro spoglie. E tu per la tua grande pietà ostacolasti il suo piano e confondesti i suoi progetti e facesti ricadere sul suo capo la sua pena e appesero lui e i suoi figli sulla forca].
Il traduttore (anonimo, probabilmente coincidente col copista, Baricci 2022b, p. 46) prende posizione: Šušan per lui è il palays. Dimostra quindi di aderire all’interpretazione di Avraham ibn Ezra. La cosa non stupisce, perché ibn Ezra è uno dei commentatori più letti e autorevoli. Eppure, una sola parola – palays piuttosto che ciutad – suggerisce una cosa molto importante: nella Provenza ebraica non vi era un solo modo di tradurre il libro di Ester (e, in generale, la Bibbia); vi erano tante scuole e altrettanti modi di interpretare il testo – e quindi tradurlo – a seconda delle fonti esegetiche disponibili e dei commentatori seguiti. Sulla scelta del traduttore, poi, influiva anche l’ambiente nel quale costui viveva e che aveva sotto gli occhi: una cittadella fortificata, un castello, il palazzo del signore locale o una grande tenuta, il fiume, il quartiere ebraico fuori o dentro il contado, e così via.
Analizziamo ora la scena del banchetto, quel “convito di sette giorni che si tenne nella corte del giardino del palazzo reale: tappeti bianchi verdi e blu sospesi con corde di lino e porpora su anelli d’argento e colonne di marmo…”. Questo passaggio ha scatenato la creatività degli esegeti, complice una serie di termini di ardua interpretazione. In particolare, sono tre le parole su cui si concentrano tutti i commenti: ḥur, karpas e tekhelet, che nella traduzione qui fornita sono resi con “tappeti bianchi verdi e blu”.
Secondo Yosef Qara – siamo dunque nella Francia del Nord tra XI e XII secolo – questi tre termini corrispondono a stoffe di colori diversi (bianco, verde, blu), e sarebbero, come ci precisa la glossa giudeo-francese, cortines, ovvero dei tendaggi (Walfish, 1993, p. 193). Queste cortine sarebbero ricamate (aḥuz)25 con fili di lino e porpora e sospese alle colonne di marmo (‘ammudé-šeš) e alle stanghe (cilindriche) d’argento (gelilé-kesef), così da rivestire le pareti della sala del banchetto. Ciò corrisponde bene all’allestimento delle sale dei convivi coevi, in cui, per tenere caldo l’ambiente, si usava ricoprire le pareti di tendaggi e arazzi (ibidem).
Una interessante, diversa interpretazione del passo è fornita da Levy ben Gershon, che vive nella Provenza della prima metà del Trecento. Levy ben Gershon, turbato dal fatto che la porpora non sia un tessuto, a differenza del lino, bensì un colore, la associa a ḥur, karpas e tekhelet (i tessuti bianchi verdi e blu) e non la interpreta più come un filo, bensì come una tenda di colore rosso:
ḥur è una stoffa bianca; carpas è una stoffa verde la cui sfumatura prende il nome di carpas; techelet è una stoffa colorata di azzurro. Queste stoffe erano sospese all’aria aperta da corde di lino per fungere da tenda, riparo e copertura. L’argaman (porpora) è una stoffa di colore rosso, ed essa era appesa a mo’ di tendaggio su cilindri di argento e colonne di marmo. I gelilé-kesef sono appunto cilindri a mo’ di sostegno e penserei che essi fossero appoggiati alle colonne di marmo come aste tra una colonna e l’altra. Ai cilindri erano appese le stoffe di porpora e ad essi erano sostenuti anche i tendaggi di vari colori.26
Gershonide immagina dunque non solo dei tendaggi laterali, ma anche una copertura superiore, a creare una sorta di padiglione; inoltre, mentre per i commentatori della Francia del Nord il banchetto si tiene al chiuso e le tende isolano il locale dal muro, per il provenzale invece il banchetto è all’aperto. I tendaggi riparano quindi dai potenti raggi del sole (e dagli insetti).
Israel Caslari, che vive nello stesso ambiente ed è più o meno coevo di Levy ben Gershon, descrive come segue la corte del re addobbata per il banchetto:
Los leiz vuelh que sian garniz
de polpra e de samitz;
bels pavilhons ajan las colcas
per moisalas e per mosca […]
tot l’ort del rey encortineron;
lai von naisian creissons et berlas,
non i veirias mais aur e perlas. (vv. 87-90; 110-112)
[i letti voglio che siano adornati di porpora e di seta; che i giacigli abbiano belle cortine a causa dei moscerini e delle mosche […] tutto il giardino del re cinsero di tendaggi; là dove spuntavano crescioni e berule, non vi avreste visto altro che oro e perle]
In questi versi, piacevoli e ben ritmati, mai si direbbe che l’autore non stia semplicemente perseguendo un fine retorico, ma stia manifestando la sua posizione in merito a un punto esegetico controverso, eppure è così: il verso “tot l’ort del rey encortineron” è una allusione alla stessa interpretazione esegetica che ritroviamo in Gershonide, secondo cui il banchetto si tenne nel giardino (ort) e sotto un baldacchino fatto di stoffe per l’occasione (encortineron) che lo coprì interamente (tot).
Ma‘asé Ester è, come sempre, molto più sintetico: “Samitz, polpras e lies dorets” (v. 17). Il verso, oltretutto, risulta solo parzialmente leggibile.27 Se esso riprende chiaramente quanto scritto in Ester 1:6, a proposito delle stoffe e dei giacigli d’oro, non possiamo capire, da ciò che è rimasto, che interpretazione dia del versetto. Tuttavia, notiamo che i termini impiegati in Ma‘asé Ester ricorrono quasi uguali in Roman d’Ester. Un altro punto, dunque, in cui i due testi si avvicinano tanto da farci sospettare alle loro spalle una tradizione di parafrasi giudeo-provenzali di Ester pensate per un intento religioso di celebrazione di Purim e anche per un intento letterario. Queste parafrasi, pur costituendo una tradizione a sé, altra da quella esegetica, sono strettamente connesse all’ambiente erudito della scuola, tanto che è probabile che sia da questo milieu che trassero origine.28 Pertanto, non stupisce che i “sintagmi comuni” siano frequenti proprio in corrispondenza di passaggi di testo che richiedono interpretazioni sottili e specifiche, nonché variabili a seconda di una data scuola e di un dato pensiero.29
4. SUSA COME SPAZIO DI LUSSO FAVOLOSO: UN TEMA COMUNE A CRISTIANI ED EBREI DI PROVENZA
Prossimi alla conclusione, mi sembra estremamente interessante comparare, con le traduzioni giudeo-provenzali finora esaminate, un’ulteriore traduzione che non è una fonte ebraica. Mi riferisco alla traduzione provenzale, “cristiana”, di Ester, conservata nel ms. Paris, BNF, 2426.30 Il manoscritto è datato al XV secolo, secondo l’indagine sulla scrittura, e l’analisi linguistica dimostra che la traduzione proviene dalla stessa area d’origine del Roman d’Ester e di Ma‘asè Ester, ovvero la Provenza.31 Questa traduzione provenzale non fu effettuata direttamente dal latino della Vulgata, ma a partire dal francese. Il modello è noto: si tratta della Bible d’Acre.32
Ora, questa traduzione “provenzale-cristiana” riflette una tradizione diversa da quella giudeo-provenzale appena analizzata. Prima di tutto perché non parte dalla lingua ebraica, ma dal francese che a sua volta dipende dal latino; inoltre, perché il testo masoretico è diverso da quello della Vulgata in più punti e già la Bible d’Acre non ne è una resa puntuale e letterale, perché taglia o rielabora vari passaggi. Infine, la traduzione cristiana non attinge alle fonti esegetiche ebraiche né tantomeno si pone come una rielaborazione in versi per Purim.
La comparazione tra queste fonti dalle origini tanto diverse fa comprendere ancora di più quanto il lavoro di traduzione non sia automatico – in fondo tutti questi testi datano più o meno alla stessa epoca e provengono dalla stessa area del dominio occitano, eppure sono rese molto diverse – ma si fondi su un’indagine linguistica ed esegetica che tiene conto di numerose variabili: la lingua di partenza, la tradizione interpretativa, le aspettative del pubblico, l’ambiente del traduttore, il messaggio che egli vuole veicolare. Ciò detto, vediamo che interpretazione dà la “Ester cristiana” dei versetti in questione:
El temps del rey Assuerus que regnet de India fin als monts de Ethiope sobre.Cxxvii. prouencias, Suszi la nobla ciutat fon cap de son regne. Al ters an de son realme fes grant convit a tots sos barons e a tots los nobles homes de son realme per monstrar sa grant riqueza e la grant gloria de son realme. Cxl. jors duret lo convit dels barons, e quant venc a la fin del convit, si conviet totz los homes de Suzsi, paucs e grants, e lur tenc lo convit.vii. jorns. Aquest convit fon fach en.i. sieu jardin, al qual foron tenduts tendas de mot colors am cordons de seda, e los anels de fin ori, e·ls outils mezesmes, que sostenian las tendas, eran de ori. E pendren dints aysi com rapugas de rasimps e de diverses frucs entalhats d’aur e d’argent e de ori, e d’autres divers grenhs33 pendren de dints las tendas, laorats am peyras preciozas. (f. 309r)34
L’espressione nobla ciutad per definire Susa è una ripresa diretta dal francese:35 “Susis la noble cite fu le chief de son regne”,36 laddove la Vulgata dice: “Susan civitas regni ejus exordium fuit” (“Quando Assuero sedette sul trono del suo regno, la città di Susa ne fu la capitale”).
Il provenzale (e a monte il francese) elimina la precisazione che Assuero siede in trono, presente nel latino (e diretta traduzione dell’ebraico), ma specifica che la città di Susa, capitale del regno, è “nobile”, calandoci in un mondo cortese ed esotico al tempo stesso che ben si attaglia alla provenienza d’oltremare della originaria versione francese, che vagheggia di remote città e di uomini valenti e cavalieri.
Per quanto riguarda, invece, la descrizione del banchetto nel giardino del palazzo, la traduzione cristiana, pur con scelte lessicali diverse da quelle ebraiche, prospetta uno scenario simile a quello immaginato dal Roman d’Ester e da Levy ben Geršon: nel giardino è costruito una sorta di gazebo adornato di tessuti preziosi e sostegni d’oro. La traduzione si sbizzarrisce: all’interno del bersò, vi sono appesi frutti d’oro, d’argento e perle – così è interpretato il semplice accumulo di pietre preziose che si trova nel testo biblico.37
Ogni autore, ciascuno a modo suo, descrive uno spazio di lusso estremo, una ricchezza da sogno, ed è il proprio ambiente che determina e varia questo immaginario. A livello figurativo questo fatto diventerà una costante evidente nel tempo: la scena del banchetto di Assuero è un tema pittorico che, sia nella tradizione cristiana sia in quella ebraica, è sempre dipinto con dovizia di dettagli e grande fantasia.38 Tuttavia, a ispirare l’immaginario dei traduttori provenzali, cristiani ed ebrei, su Susa, potrebbe esservi stato anche un motivo più specifico, legato a una peculiarità del contesto. Si noti, infatti, la coincidenza geocronologica delle fonti prese in esame, che provengono tutte dalla Provenza e risalgono al XIV-XV secolo.39 Ciò detto, è possibile che sulla descrizione della Susa biblica come uno spazio di lusso favoloso (e forse, a monte, sulla scelta stessa di tradurre in provenzale la storia di Ester) abbia influito l’esempio eclatante della Avignone papale, per una sorta di sovrapposizione tra questa e la Capitale di Assuero? Si tratta, naturalmente, solo di un’ipotesi, che mi sembra però interessante proporre, in conclusione a questo contributo, anche come possibile punto di partenza per un dibattito sulla questione. Le analogie tra la Susa biblica e la Avignone trecentesca, in effetti, non mancano: ricchezze da sogno, un palazzo-fortezza che sorge presso un fiume, un sovrano potentissimo, banchetti pantagruelici (soprattutto quelli di Clemente VI),40 esotismo (considerando che, com’è noto, Avignone fu identificata con Babilonia)41… ci sono tutti gli elementi per fantasticare e trasportare nel contesto presente un mondo da fiaba.
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Roma, Biblioteca Casanantense, 3140, ff. 390v-392r (Ma‘asé Ester).
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1 Rothschild Fellow presso l’Università degli Studi dell’Insubria, Como-Varese, Dipartimento di Scienze Umane e dell’Innovazione per il Territorio. Legal Head Office: Via Ravasi 2, 21100 Varese. Mail: erica.baricci@gmail.com.
2 Sulle traduzioni in lingua locale, si veda Mayer Modena, 2011; sui Targumim (le traduzioni in aramaico) si veda Damsma, 2014.
3 Per la trascrizione delle parole ebraiche, in questa sede si adotta il seguente sistema. Non si indicano le vocali brevi e quelle lunghe. L’articolo determinativo ha- è prefisso alla parola con un trattino, senza il raddoppiamento della consonante iniziale. א (’) (non iniziale né finale, solo in corpo di parola); בּ, ב (b, v); גּ, ג (g) (sempre occlusiva velare); דּ, ד (d); ה (h); ו (w); ז (z) (da pronunciare fricativa alveolare sonora); ח (ḥ); ט (ṭ); י (y); כּ, כ, ך (k, kh); ל (l); מ,ם (m); נ, ן (n); ס (s) da pronunciare fricativa alveolare sorda); פּ, פ, ף (p, f); ע (‘); צ, ץ (ṣ); ק (q); ר (r); שׂ (ś) (da pronunciare fricativa alveolare sorda); שׁ (š); תּ, ת (t). Tutte le traduzioni dall’ebraico e dal provenzale, ove non diversamente specificato, sono di mia responsabilità.
4 Per un approfondimento sul Midraš, si rimanda a Banon, 2001 e Ventura Avanzinelli, 2004.
5 Fonti di riferimento per questo midraš: Panim Aḥerim 46 e 66; Ester Rabbah II, 5 e III, 1-2; TB, Sanhedrin 61b; 1 e 2 Targum III, 2 (Ginzberg, p. 1581, nn. 99-100).
6 Cfr. Hebrew and Chaldee Lexicon (Gesenius), pp. 68-69 s.v. אסתר (Ester). https://www.tyndalearchive.com/TABS/Gesenius/
7 Con giudeo-provenzale intendo in questa sede la varietà provenzale (medievale) dell’occitano scritta in caratteri ebraici. Per uno studio generale sull’argomento, si rimanda ad Aslanov, 2001. Per quanto riguarda le parlate moderne degli ebrei del Midi francese, si veda il recentissimo studio di Nahon, 2023 (a cui si rinvia per una bibliografia completa e aggiornata sull’argomento).
8 Per la datazione agli anni Quaranta del XIV secolo, si veda Baricci, 2022a, 1-3. Sul Roman d’Ester (il cui testimone unico è il ms. New York, Library of the Jewish Theological Seminary of America, 3740, ff. 23v-29v, datato al XV-XVI sec.) si citano di seguito alcuni studi, cui si rimanda per ulteriore bibliografia: Meyer-Neubauer, 1892, pp. 194-227; Huchet, 1991, pp. 173-184; Méjean Thiolier-Notz Grob, 1997, pp. 124-157; Wanono, 1999, pp. 349-378; Piudik, 2014; Baricci, 2022a.
9 Per l’attribuzione a Kalonymos ben Kalonymos, si veda Baricci, 2022a, pp. 70-74; Su Ma‘asé Ester (attestato nel ms. Roma, Biblioteca Casanantense, 3140, ff. 390v-392r), si veda la seguente bibliografia: Baricci, 2014, pp. 9-50; Strich-Jochnowitz, 2017, p. 523; Baricci, 2017, pp. 367-388; Baricci, 2022a.
10 I due testi, che nel manoscritto sono in caratteri ebraici, si danno già traslitterati e adeguati alla grafia provenzale, secondo rispettivamente l’edizione Baricci, 2022a, pp. 83-93 (Ma‘asé Ester) e l’edizione Méjean-Thiolier – Notz-Grob 1997, pp. 124-157 (Roman d’Ester). Per le corrispondenze tra lettere ebraiche e fonemi provenzali e i criteri di trascrizione, si rimanda a Meyer-Neubauer, 1892, pp. 196-200, Aslanov, 2001, pp. 49-62 e Baricci, 2022a, pp. 77-78. Tutti i testi tratti dalla Bibbia e qui citati seguono il testo masoretico. https://biblebento.com/index.html?bhs
11 Nella variazione sullo schema nota come zulat “corale”, in cui dopo la quartina monorima vi è, appunto, un distico a rima fissa, pensato probabilmente per essere recitato da un coro. Sulla questione, si veda Baricci, 2022a, pp. 59-63.
12 Il commento di Avraham ibn Ezra si intitola Peruš al ḥameš megillot (“commento alle cinque megillot”, ovvero i Libri biblici di Ester, Rut, Ecclesiaste, Lamentazioni, Giobbe). Il passaggio di nostro interesse è il commento a Ester 1:2. Per un elenco di tutti i testimoni del commento di ibn Ezra, vd. Walfish, 1993, pp. 319-320.
13 Questa scelta interpretativa si basa sulla lettura di 1Cron. 29:1: כִּ֣י לֹ֤א לְאָדָם֙ הַבִּירָ֔ה כִּ֖י לַיהֹוָ֥ה אֱלֹהִֽים (“perché ha-birah – da ibn Ezra inteso con “il palazzo” – non sarà di un uomo, ma del Signore Iddio”).
14 Per la questione in generale e le fonti, si veda Walfish, 1993, pp. 100; 270 (n. 10); per la collocazione delle due parti della città con il fiume in mezzo, si vedano Méjean-Thiolier – Notz-Grobb 1997, pp. 46; 130-131. https://www.chabad.org/library/article_cdo/aid/2833188/jewish/Chapter-One.htm
15 Per una spiegazione del passo, legata agli accampamenti dei nobili intorno alla città di Susa, vid. n. 16.
16 A questo sembrano alludere le establidas, “accampamenti”, cui fa riferimento il testo. Cfr. a tal proposito anche Roman d’Esther, in cui si parla (v. 72) di liuraias (vid. n. 15). Cfr. Méjean-Thiolier – Notz-Grobb, 1997, pp. 130-131: “Liuraia nous paraît dérivé de liura, ‘portion, parcelle de terre’; les textes confirment que chacun eut une place pour élever sa tente”.
17 Il verso si riferisce alle ancelle al servizio di Ester a palazzo, che sarebbero secondo il testo “schiave affrancate da grandi magioni” (per la spiegazione, ancora incerta, del verso, vid. Baricci, 2022a, p. 128).
18 Questo passaggio di testo, si riferisce al palazzo di Assuero, dal quale è appena uscito Haman che, vedendo Mordekhay, nutre odio e risentimento nei suoi confronti, e decide di nuocergli organizzandone l’esecuzione (cfr. Est. 5:9).
19 Cfr. Baricci, 2022a, p. 196 e DOM (Dictionnaire de l’Occitan Médiéval), https://dom-en-ligne.de//dom.php?lhid=5F3lCKit3rGCKW5YdZvJj8.
20 In entrambi i colophon presenti nel ms. Roma, Casanatense 3140 (ff. 62r; 190r), la città di Salon viene, tra l’altro, chiamata Migdol Salon, letteralmente “torre di Salon”, come sempre nelle fonti ebraiche, in ricordo di un’antica rocca che sorgeva presso la cittadina (Gröss, 1897, p. 653).
21 Vid. supra.
22 In Baricci, 2022a, pp. 121 e 202, ribiera è inteso come “regno”, ma la scelta di un termine così specifico per designare il reame è giustificata solo sulla base della rima in -era richiesta dalla quartina. Si tratterebbe quindi di una sorta di licenza poetica da parte dell’autore, che amplia il senso della parola ribiera perché necessita di un nome indicante un’estensione di luogo e che termini necessariamente in -era. Con ogni probabilità, invece, è una scelta del tutto consapevole e ben ponderata da parte dell’autore, che con questo termine vuole rivelare la sua opinione sulla conformazione della città di Susa.
23 Si tratta del ms. Leeds, Brotherton Library, Roth 32. Datato alla fine del XV secolo, e composto probabilmente nell’area di Avignone, esso rappresenta una miniera di informazioni sulla liturgia degli ebrei di Provenza dell’epoca ed è anche una fonte fondamentale per lo studio del giudeo-occitano. È meglio parlare di “giudeo-occitano”, in questo contesto, anziché di “giudeo-provenzale”, perché l’esame linguistico non ne ha ancora chiarito in maniera dirimente la localizzazione, anche se alcuni tratti sembrano portare verso l’area linguadociana. Si vedano a questo proposito Baricci, 2022b, p. 41, n. 1, e Baricci, 2023b, pp. 82-83.
24 Per i criteri di trascrizione del giudeo-provenzale, si veda n. 12 e relativi rimandi bibliografici.
25 È Rashi di Troyes il primo a intendere il verbo, che in questa forma è un participio passivo, come “ricamato”, forzando, in realtà, il suo significato, che è “tenuto”, “preso” (Walfish, 1993, p. 15 e p. 240, nota 11). Non è un caso che Yosef Qara, legato a Rashi, alla sua scuola e al suo metodo esegetico, riprenda parte della sua proposta interpretativa.
26 Per il testo originale si veda: https://www.sefaria.org/Esther.1.6?lang=bi&with=Ralbag&lang2=en
27 Si trova tra l’altro aggiunto a margine della pagina, probabilmente perché saltato dal copista nell’atto di trascrizione e solo in un secondo tempo inserito. Questo sarebbe il primo verso del distico a rima fissa; il secondo verso, essendo trascritto a margine e di lato, è andato interamente perduto, poiché le pagine del testimone sono rovinate lungo tutti i lati. Per maggiori dettagli sullo stato di conservazione del codice, vid. Baricci, 2022a, pp. 225-226.
28 Tutti i testi su Ester, in ebraico o giudeo-provenzale, composti a partire dalla prima metà del Trecento, rimandano ad autori o ad ambienti legati al pensiero maimonideo (Baricci, 2017, p. 369ss., Baricci, 2022a, pp. 12-13). Inoltre, anche in altre parti della Diaspora ebraica (per esempio nel mondo aschenazita), dal Medioevo in avanti, le parafrasi del libro di Ester, che nella prima età moderna diventeranno teatro vero e proprio, sono spesso connesse alla scuola e a una sorta di ambiente goliardico ebraico. Si veda, a questo riguardo, Rosenzweig, 2011, p. 40, che parla di “una tradizione letteraria parallela a quella goliardica […] sviluppata nella società ashkenazita medioevale e […] confluita poi nel Purim-shpil”; anche lo studio che sto conducendo sulla “Commedia del fidanzamento” (Ṣaḥut bediḥuta de-Qiddušin) di Leone de’ Sommi (siamo, in questo caso, in ambiente italiano, e precisamente nella Mantova ebraica di metà del Cinquecento) sembra portare a considerazioni analoghe. Si veda anche Baricci, 2023a, pp. 131; 141.
29 A questo riguardo, si veda l’occorrenza in Ma‘asé Ester, ai vv. 28-31, di due distici a rima fissa consecutivi, che spiegano in maniera diversa (cioè ricorrendo a spiegazioni midrasciche differenti) le ragioni per cui Vašti, la prima sposa di re Assuero, non si presentò a corte come ordinato dal sovrano, tanto da essere messa a morte. La questione deve ancora essere studiata a fondo, ma il fatto che i due distici diano interpretazioni diverse, ma equivalenti, sembra escludere che il copista abbia semplicemente saltato una possibile quartina intermedia; piuttosto, parrebbe logico immaginare che abbia trascritto di seguito due versioni alternative (una delle quali poteva essere scritta a margine, nel suo modello). Ciò presuppone, a monte, almeno una tradizione testuale già abbastanza complessa, che prevedeva varianti significative. D’altro canto, visto che il testo era pensato per essere recitato davanti a un pubblico, non stupisce che circolassero più versioni, dovute al molteplice numero delle performance. Inoltre, è plausibile che le varianti si concentrassero laddove c’erano più interpretazioni midrashiche (come nel caso della vicenda di Vašti).
30 Su questo manoscritto e sulla traduzione occitana, si vedano: Berger, 1977 (I edizione 1890); Brunel, 1935; Hershon, 2016; Wunderli, 2019, Zinelli, 2021 e la recensione di Giraudo, 2021. https://journals.openedition.org/peme/40015 a Wunderli, 2019.
31 Secondo Zinelli, 2021, par. 4 (https://journals.openedition.org/ashp/4375) il testo proverrebbe dalla zona a est del Rodano: “Le manuscrit appartient à la zone causa / fach, correspondant à une aire assez large incluant la Provence et on y repère régulièrement la présence du -n mobile, trait habituel des dialectes provençaux à l’est du Rhône. On recense aussi plusieurs autres spécificités provençales telles que l’adjectif redier ” dernier ”, les formes avec dissimilation -m- / -m- en -n- / -m- renembransa, renembrar, la métathèse bezenir pour benezir et le substantif fruc ” fruit ”. La forme clerdat pour clardat est, elle aussi, bien conservée par les textes provençaux. Il en est de même pour l’article sa < IPSA si c’est bien de cette forme spécifiqe qu’il s’agit en 5.3 (“ Digas mi qui es aquest pobol e aquestas gents que pausan e habitan en sas montanhas ”) et en 5.5 (“ yeu vos ho diray cuy es aquest pobol que habitan en sas montanhas “)”.
32 La Bible d’Acre è il nome con cui si designa la traduzione in antico francese (di parte) dell’Antico Testamento, databile al XIII secolo e composta in Oltremare. I manoscritti principali che conservano il testo sono ms. Paris, Arsenal 5211e ms. Paris, BNF, NAF 1404. Cfr. Nobel, 2002, 2006, 2015, Zinelli, 2021.
33 La parola è considerata di significato incerto nel Provenzalisches Supplement-Wörterbuch di E. Levy (cfr. DOM: https://dom-en-ligne.de//dom.php?lhid=3IqZEOXYOQhbczIFw2Nl4T), dove si rimanda a questo unico passo di Ester e si propone, sulla base del contesto, il senso di “manufatto artistico” (cfr. ibidem: “Ist etwa gienhs zu ändern und “kunstvolle Dinge” zu deuten?”). Mi pare invece che si possa connettere con granhon, “acino d’uva” o “nocciolo d’oliva” https://dom-en-ligne.de//dom.php?lhid=Izhb4ZqnPrGIPkWZeoCA2. Si sta infatti descrivendo l’interno del padiglione, dove “pendevano grappoli d’uva e di diversi frutti intagliati d’oro, e altri diversi grenhs pendevano dentro le tende, lavorati con perle preziose”. Il termine è usato come una sorta di sinonimo di rapugas e frucs, e sembra infatti intendere dei grappoli composti di acini che in realtà sono perle. Il francese (vid. n. 37) scrive iaus, “gioie, gioielli”.
34 Il manoscritto è digitalizzato su “Gallica”. Al seguente link è possibile vedere il folio dove si legge il passo in questione: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b9059989b/f323.item.zoom
35 Secondo il ms. Paris, Arsenal 5211, f. 261v, che è il testimone che conserva anche il Libro di Ester, assente nell’altro grande testimone, che è il ms. Paris, BNF, NAF 1404: si consideri però che la traduzione provenzale “contamina”, probabilmente, i due rami della tradizione. Cfr. Zinelli, 2021, par. 7. Lagomarsini, 2024 (in corso di pubblicazione).
36 Si veda il folio del passaggio in questione (anche infra, n. 37) al seguente link: https://portail.biblissima.fr/ark:/43093/mdataa9065aa3b518639a34661aa58fc47644eaa0bfc8
37 Anche in questo il provenzale è una ripresa fedele del francese, di cui si dà qui la trascrizione diplomatica (tratta dal ms. dell’Arsenal 5211, f. 261v, vid. anche n. 35): “ Cist convives fu fait en un iardin delicios el quel furent tendues tentes de totes colors et tendues a cordes de soie et les anelez esteient de fin yvoire et li postel meimes qui sosteneient les tentes esteient d’yvoire et pendoient ausi dedenz come grapes de raisins et divers fruiz entailliez d’or et d’argent et d’yvoire, et autres divers ioaus pendeient dedenz les tentes, laboré a pieres precioses”. Come si noterà, il francese elabora ed espande la più stringata descrizione presente nella Vulgata (“Et pendebant ex omni parte tentoria aerii coloris et carbasini ac hyacinthini, sustentata funibus byssinis, atque purpureis, qui eburneis circulis inserti erant, et columnis marmoreis fulciebantur. Lectuli quoque aurei et argentei, super pavimentum smaragdino et pario stratum lapide, dispositi erant: quod mira varietate pictura decorabat”, Est. 1:6).
38 Si citano qui due, tra i molti esempi, di tale rappresentazione: il banchetto di Assuero di Jacopo del Sellaio (1442-1493), conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze (Limardo Daturi, 2004, pp. 160 ss.), e la scena del banchetto nel rotolo di Ester (megillat-Ester) conservato presso la Biblioteca Angelo Mai di Bergamo (Baricci, 2015-2016; visibile anche online: https://www.effettobibbia.it/il-rotolo-di-ester). Per una sorta di Bibliographie iconographique, come la definisce Limardo Daturi, 2004, p. 271, sul tema di Ester, compreso il tema iconografico del banchetto di Assuero, si rimanda a ibidem, pp. 171-293.
39 Escluderei da questo discorso il Siddur, che sicuramente non rivela, perlomeno nel passaggio analizzato, influenze di un ambiente diverso da quello della scuola, della tradizione esegetica ebraica e dei suoi maestri. Per quanto riguarda la traduzione “cristiana” di Ester, il manoscritto che la conserva è databile al XV secolo: la datazione funge, di conseguenza, da terminus ante quem.
40 Clemente VI, papa dal 1342 al 1352, fu noto ai posteri per lo splendore dei suoi banchetti e per il lusso dei suoi rimodernamenti nel palazzo di Avignone e fu, inoltre, favorevole nei confronti degli ebrei. Egli stesso aveva cominciato a studiare l’ebraico e l’interesse per la lingua e la letteratura ebraica si manifestò anche nella promozione di una traduzione dell’opera astronomica nientemeno che del nostro Levi ben Geršon. Costui, peraltro, potrebbe non essere stato estraneo all’ambiente della corte pontificia, come molti altri ebrei dell’epoca. Una sorta di identificazione tra il Papa e re Assuero (l’identificazione del personaggio di Assuero con il sovrano locale è un fatto diffuso nella produzione esegetica medievale sul libro d’Ester, per cui vd. Walfish, 1993, pp. 183-199) potrebbe avere portato alla ribalta, in quell’epoca, la vicenda di Ester come storia “nazionale” degli ebrei di Provenza. Sulla questione, si veda anche Baricci, 2022a, pp. 2-3.
41 A partire da Petrarca, che nelle epistole sine nomine, nel sonetto 114 e nei sonetti 136-138 del Canzoniere identifica Babilonia con Avignone (cfr. Berisso, 2011).