Specula Revista de Humanidades y Espiritualidad

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CANTI E PREGHIERE DAL SIDDUR GIUDEO-PROVENZALE (MS. LEEDS, BROTHERTON LIBRARY, ROTH 32): CONSIDERAZIONI LINGUISTICHE E STILISTICHE

SONGS AND PRAYERS FROM THE JUDEO-PROVENÇAL SIDDUR (MS. LEEDS, BROTHERTON LIBRARY, ROTH 32): SOME LINGUISTIC AND STYLISTIC CONSIDERATIONS

Erica Baricci1

Fechas de recepción y aceptación: 26 de mayo de 2022 y 20 de febrero de 2023

DOI: https://doi.org/10.46583/specula_2023.1.1076

Riasunto: Il ms. Roth 32 della Brotherton Library di Leeds, redatto in Provenza alla fine del 1400, è l’unico testimone noto di un siddur (libro ebraico di preghiere) in giudeo-provenzale. Esso costituisce un’importante fonte di informazioni sia sul rito degli ebrei di Provenza nel XV secolo, sia sulla lingua giudeo-provenzale. In questo articolo presento l’edizione di alcuni canti e preghiere conservati nel ms. Roth 32, finora inediti e, sulla base del materiale linguistico offerto, formulo alcune considerazioni di carattere linguistico e stilistico su questa specifica varietà di provenzale. In particolare, analizzo il metodo di traduzione dall’ebraico al giudeo-provenzale, chiarendo il significato di termini rari o non attestati nel provenzale “cristiano” coevo: talvolta si tratterà di neologismi, talvolta di prestiti (persino dal giudeo-arabo), talvolta di termini attestati finora solo nel provenzale moderno; inoltre, considero il rapporto tra il giudeo-provenzale “scolastico” riflesso nel siddur e qualche spia della lingua parlata dagli ebrei dell’epoca, per mettere in evidenza la complessità diafasica di questo idioma. Infine, opero un confronto tra le traduzioni giudeo-provenzale e giudeo-italiana dello Šema‘Israel per trarre qualche considerazione sull’annosa questione che riguarda la comune tradizione delle traduzioni giudeo-romanze e la loro eventuale origine giudeo-latina.

Parole chiave: Giudeo-provenzale, siddur, idiomi ebraici, Šelomoh ibn Gabirol, benedizione al femminile, preghiera ebraica, salmi, piyyuṭ

Abstract: Ms. Brotherton Library (Leeds) Roth 32, copied in Avignon during the XV century, is the only witness of a Judeo-Provençal siddur, the daily and festival Jewish prayer-book. It represents an important source of information not only for the liturgy adopted by XV-century Provençal Jews, but also for Judeo-Provençal language.

In this essay, I provide the edition of some unpublished songs and prayers from ms. Roth 32 and I carry out some hypothesis concerning this specific variety of Judeo-Provençal. In particular, I examine the method of translation from Hebrew to Judeo-Provençal, explaining the meaning of some rare or otherwise unattested words: they are neologisms, loanwords (even from Judeo-Arabic) and terms otherwise attested only in Modern Provençal. I also consider the relationship between Judeo-Provençal, as it is attested in the siddur – i.e. the “scholastic” Judeo-Provençal – and some hints of the Provençal which was spoken by XV century Provençal Jews, in order to evidence the diaphasic complexity of this language. Finally, I compare the Judeo-Provençal translation of the Šema‘ Israel to the Judeo-Italian one, in order to introduce new linguistic data in the debate concerning the possible (Judeo-Latin?) common tradition underlying the Judeo-Romance translations of the Bible and the Siddur.

Keywords: Judeo-Provençal, siddur, Jewish Languages, Šelomoh ibn Gabirol, women’s benediction, Hebrew prayer, psalms, piyyuṭ

1. UN TESORO INESPLORATO DI INFORMAZIONI SULLA LINGUA E LA SOCIETÀ DEGLI EBREI PROVENZALI

Il manoscritto Roth 32 della Brotherton Library (Leeds) fu copiato in Provenza, nei pressi di Avignone, verso la fine del XV secolo (Lazar, 1970, p. 576; Frojmovič, 1997, p. 54; Baricci, 2022a, pp. 41-55). Esso costituisce l’unico testimone ad oggi noto di un siddur – il libro di preghiere secondo il rito ebraico – scritto in lingua giudeo-provenzale.2

Diversi codici di siddurim giudeo-romanzi sono giunti fino a noi.3 Essi datano solitamente a partire dal XV secolo, ma le traduzioni che conservano sono più antiche e rappresentano gli ultimi affioramenti di una catena di trasmissione – in gran parte orale – risalente, nella sua forma scritta, almeno al XIII secolo (Lazar, 1970, p. 577; Mayer Modena, 2003, p. 65).

Tradurre il siddur nella lingua parlata fu un’esigenza concepita innanzitutto per un pubblico femminile. In verità, anche molti degli uomini non sarebbero stati in grado di leggere e comprendere l’ebraico delle preghiere; tuttavia, possedere una traduzione del siddur fu inteso, soprattutto a partire dal Quattro-Cinquecento, come un lusso tutto femminile e infatti il siddur “latino”, ovvero in traduzione romanza, era un tipico dono in occasione di un matrimonio.4

Anche il siddur giudeo-provenzale fu un regalo di nozze per una sposa; sul frontespizio del manoscritto, infatti, si legge (in ebraico) sorella mia, possa tu diventare migliaia di miriadi, che è la benedizione data a Rebecca dai suoi fratelli quando va in sposa a Isacco (Gen. 24:60); nell’originale biblico per l’esattezza si legge sorella nostra, non sorella mia. La leggera modifica fa dunque immaginare che il committente del dono nuziale (e forse copista stesso) sia un affettuoso fratello (Baricci, 2022a, p. 43).

Che la destinazione di questo siddur sia femminile, lo si coglie anche da una delle sue più notevoli particolarità, ovvero un interessante e raro caso di femminilizzazione di una preghiera. Si tratta della benedizione in cui la donna ringrazia Dio per averla “fatta donna”:5Benezeg tu, sant benez[et] nostre Dieu rei del segle qui fis me fenna. Una potente affermazione, considerando che il rito prevedeva, già nel XV secolo – epoca in cui fu esemplato il nostro manoscritto – che le donne ringraziassero Dio semplicemente per averle create “secondo la Sua volontà” (Kahn, 2011, pp. 66-77; Ryzhik, 2013, p. 232). Ad oggi sono noti solo tre siddurim (compreso il nostro) che attestano la benedizione “al femminile” ed essi, come è stato messo in luce,6 sono tutti legati all’ambiente provenzale (Baricci, 2014a, pp. 237-39; Baricci, 2022a, p. 45).

Come si arguirà, il testo del siddur giudeo-provenzale rappresenta una notevole risorsa per lo studio dell’ebraismo provenzale del Medioevo, innanzitutto per quanto riguarda gli aspetti specifici del culto: ancora nel XV secolo, infatti, epoca a cui risale il manoscritto Roth 32, gli ebrei di Provenza non conoscevano un rito uniforme (Reif, 1993, p. 168). Il rito provenzale vero e proprio, in effetti, è più tardo, e risale all’epoca in cui le quattro qehillot (le “comunità” dell’ebraismo provenzale: Avignone, Îsle-sur-Sorgue, Cavalhon e Carpentras), ormai stabilitesi, svilupparono un loro profilo preciso, ovvero dopo il 1498.7

Ciò che conosciamo del rito provenzale medievale è dovuto soprattutto a compendi di normative, come il Sefer ha-Manhig di Avraham ben Natan ha-Yarḥi, che descrive in una forma sintetica i diversi rituali compresenti nel Midi nei secoli XII-XIII. Essi rappresentano, nella loro varietà, la mistione di influenze provenienti dalla Penisola iberica, dall’Italia e da altrove,8 a ricordare una volta di più come la posizione della Provenza, terra di transizione, costituì uno dei fattori più rilevanti della sua ricchezza culturale. Per esempio, nel testo della preghiera Emet we-Yaṣiv da recitare dopo lo Šema‘ Israel, nel ms. Roth 32 occorrono alcune formule che, rispetto alla “forma base” del testo, ritroviamo, oltre che nel più tardo rito provenzale delle quattro qehillot, in un antico siddur inglese del 1287.9

Un documento come il ms. Roth 32, dunque, che testimonia nella pratica la liturgia altrove descritta in via teorica, e che nel contempo manifesta una sua assoluta tipicità (per esempio testimoniando la benedizione al femminile o riportando talvolta a fianco della traduzione giudeo-provenzale l’originale ebraico10), è un tassello fondamentale nella ricostruzione del rito provenzale medievale e delle sue peculiarità.

A soccorrerci in questa indagine, vi sono inoltre le preziose indicazioni inserite dal copista tra i vari passaggi del rito su quando e come recitare le preghiere (per esempio in quale ordine, o se si debba cantare un certo testo, o compiere una determinata gestualità, etc.),11 che forniscono interessante materiale sulle pratiche liturgiche di almeno una comunità provenzale in un dato periodo, in equilibrio tra tradizione e uso locale.

Il nostro siddur (che consta di 164 carte) costituisce anche una cospicua testimonianza linguistica di giudeo-provenzale, che per la fase medievale è attestato in pochi documenti, perlopiù frammentari e brevi.12 Non solo: essendo vocalizzato (caso praticamente unico nel corpus giudeo-provenzale medievale),13 ci permette di ricostruire la lingua con un buon grado di sicurezza anche per quanto riguarda il vocalismo.

Molte sono le domande che questo testo suscita da un punto di vista linguistico: è scritto in una specifica varietà di provenzale che è possibile individuare? Si tratta invece di un linguaggio sovraregionale, quasi di una koinè?14 Essa è soltanto una lingua tradizionale e “scolastica”, in cui si soleva tradurre i testi biblici e liturgici, oppure possiamo reperirvi anche qualche indizio sul provenzale parlato dagli ebrei dell’epoca?

Nonostante l’importanza e l’interesse di questo testo, e ormai un certo numero di saggi che sono stati dedicati all’analisi di parti del suo contenuto, ancora manca un’edizione critica.15 In attesa di un lavoro sistematico, di carattere filologico e linguistico, sull’intero siddur, in questa sede desidero presentare l’edizione di alcuni suoi canti e preghiere: due salmi davidici (in ordine di presentazione: il 135 e il 20), un piyyuṭ (canto liturgico) di Šelomoh ibn Gabirol, e lo Šema‘ Israel, la celebre preghiera e professione di fede verso Dio.

Fatta eccezione per lo Šema‘ Israel, già edito da Lazar,16 gli altri testi sono qui pubblicati per la prima volta. La presentazione di ciascuno sarà anche l’occasione per proporre qualche riflessione, sulla base del materiale linguistico offerto, circa alcuni aspetti della più ampia questione che riguarda il metodo di traduzione della Bibbia e del rituale, il tipo di lingua impiegata, il rapporto tra le diverse traduzioni giudeo-romanze, le loro fonti comuni e specificità individuali.

2. TRADURRE IN GIUDEO-PROVENZALE: IL SALMO 135 TRA CALCHI, NEOLOGISMI E SCELTE INTERPRETATIVE

I siddurim giudeo-romanzi erano trascritti da un copista che eseguiva la traduzione a partire da un modello in ebraico (Ryzhik, 2013, p. 233). Talvolta le figure impegnate nel processo erano due, un copista che trascriveva ciò che un collega gli dettava traducendo dall’originale. Questa operazione diretta di traduzione-trascrizione era possibile perché i copisti apprendevano a scuola il metodo per tradurre i Testi Sacri nelle lingue vernacolari.

La “tradizione della traduzione” (Sermoneta, 1974, pp. 27-29) che riscontriamo nel siddur giudeo-provenzale è infatti la medesima di tutte le traduzioni del testo sacro nelle lingue giudeo-romanze: letteralismo estremo, calco della sintassi ebraica fino alla distorsione della sintassi romanza, neologismi ove necessario, traduzione di un vocabolo ebraico con il suo immutabile alter ego romanzo. Per esempio, il provenzale car, che significa “perché” (secondariamente “quando”), traduce sempre l’ebraico (ki) כי, che significa sia “che” sia “perché”. In alcuni contesti in cui il senso di ki sarebbe quello di “che” (e dunque in provenzale sarebbe più adatto renderlo con que) troviamo comunque car.

Anche se l’ebraico è l’ombra che si stende su tutto questo “provenzale-calco”, le parole ebraiche presenti nel testo sono, in sé, molto rare e, se ve ne sono, si tratta di quelle ricorrenti in tutte le traduzioni tradizionali dei Rituali o della Bibbia, ovvero i nomi propri – come Israel, Miṣrayim (Egitto), Ya‘aqov (Giacobbe) etc. – molte parole del culto (come Šabbat, mussaf, ‘amidah, etc.)17 e i termini che, pur mantenendo il loro aspetto ebraico, rappresentano dei sinonimi più noti di altri meno consueti e che, per il largo impiego, vengono sentiti come parte integrante della lingua d’uso, al punto da non essere più intesi come whole hebrew, ma già come merged hebrew (nel senso di Weinreich) (Weinreich, 1980, p. 352; Bunis, 2013, pp. 37-40). Il caso paradigmatico è tefillin (“filatteri”) termine già rabbinico che traduce (o meglio, interpreta) il più difficile termine biblico ṭoṭafot (“filatteri”), oppure yom ṭov (“lett. “giorno buono”) al posto di mo‘ed (“ricorrenza festiva”) (Mayer Modena, 2003, p. 65).

Ancora più rare (ma non del tutto assenti) in questa prima fase linguistica, poiché tipiche piuttosto della fase moderna, sono le cosiddette “parole miste”. Si tratta perlopiù di verbi a base lessicale ebraica che però seguono quanto a coniugazione la morfologia romanza. Nel nostro siddur, per esempio, compare l’antichissimo verbo maudar “imparare/ripetere (la Torah)”, diffuso in tutti gli idiomi giudeo-romanzi (Blondheim, 1925, pp. 75-79); e il verbo daršar, “interpretare”, o più precisamente “compiere un deraš” ovvero applicare al testo un tipo di interpretazione, quella omiletica, che è specifica e ben distinta da altre, in particolare dalla pešaṭ – ovvero il senso letterale: “Rabbi Išma’el dis: en treze manieras es daršada la lei” (cc. 10v – 11r).18 Il passo citato è l’inizio dei cosiddetti “tredici principi di Rabbi Išma’el”, ovvero una serie di regole ermeneutiche che indicano come leggere la Bibbia per trarne considerazioni di carattere normativo. Si capirà quanto, in tale contesto, l’impiego del verbo daršar sia essenziale per far immediatamente cogliere al lettore il senso tecnico di quello che si intende con “interpretazione” (ovvero deraš).

In effetti, questi rari verbi misti presenti nelle traduzioni giudeo-romanze medievali indicano tutte azioni rituali tipiche del milieu ebraico: nei testi giudeo-italiani medievali, per esempio, troviamo verbi come baṭlare (“abrogare”), šaḥtare (“compiere la macellazione rituale”), maḥlare (“perdonare”), etc (Mayer Modena, 1999, pp. 104-105). Azioni che di per sé possono riguardare anche i non ebrei; tutti interpretavano testi, macellavano o giuravano, ma ciascuno secondo la propria maniera. La differenza è che i non ebrei non si attenevano alle prescrizioni halakhiche e, di fatto, compivano atti ritualmente impuri e incompatibili con quelli ebraici. Mi pare, dunque, che la scelta di forgiare nuovi verbi a lessema ebraico, invece che impiegare l’equivalente romanzo (provenzale, italiano…) già esistente, sia quasi un modo per preservare “l’ebraicità” e la carica kašer di questi atti.

A esemplificazione di quanto esposto circa il metodo di traduzione dall’ebraico alle lingue giudeo-romanze, presento l’edizione del Salmo 135 nella traduzione giudeo-provenzale.19 Segue l’originale ebraico20 (con traduzione italiana), per renderne evidente ed immediato il confronto.

LAUZAS

Dieu, lauzas nom de Sant Benezet, lauzas sers de Sant Benezet;

los estanz en maison de Sant Benezet, en cortz de maizon de nostre Dieu, lauzas Dieu, car bon Sant Benezet, salmejas a son nom car gentilh,

car Ya‘aqov alegi a el Dieu, Israel a son tresaur,

car ieu sai car grant Sant [18v] Benezet e nostre Senhor plus de tot Dieu;

que volontet fes al zel e en la terra e en las mars e en totz abi[s],

fazent pujar neulas d’estrem dela terra, ulhausses21 ala pluja fes, trazent vint de sos trezaures;

que peri maiors de Miṣrayim de ome entro besti, enviet senhas e meravilhas enfre Miṣrayim, en Par‘o e en totz sos sers,

que peri genz moltas e auci res afortitz, a Siḥon rey de l’Amori, e a ‘Og rey del Bašan, e a totz realmes de Kena‘an.

E donet lur terra a eretat, eretat Israel son sers.

Sant Benezet ton nom a segle, ta renembranza [19r] a gerazion e gerazion

car jujera Sant Benezet son povol e sobre sos sers sera pendit.22

Amasament de las gentz argent e aur, obra de mans d’ome.

Boca a els e non parlan, ulhz a els e non vezon,

aurelhas a elz e non auzon, neus non esprit en lur boca.

Tal con ils sian lur fezedor tot que fezant en els.

Mainada d’Israel, bendizes Sant Benezet […]23

temens de Sant Benezet, bendizes Sant Benezet.

Bendig Sant Benezet de Ṣion, pauzant Yerušalayim, lauzat Dieu.

Halleluiah, lodate il nome del Signore, lodate, o servi del Signore, che risiedete nella casa del Signore, nelle corti della casa del vostro Dio! Lodate, perché il Signore è buono, cantate in suo nome perché ciò è bello, che il Signore si scelse per sé Giacobbe, Israele come suo tesoro. Poiché io so che grande è il Signore ed è il nostro Signore tra tutti gli dei (è il più potente di tutti gli dei). Tutto ciò che volle il Signore fece in cielo e in terra, nelle acque e negli abissi. Egli innalza nuvole dal bordo della terra, fulmini per la pioggia Egli ha fatto, fa uscire il vento dai suoi tesori. Egli (che) colpì i primogeniti d’Egitto dall’uomo alla bestia, inviò segni e meraviglie in mezzo all’Egitto, su Faraone e sui suoi servi. Egli (che) colpì grandi nazioni e re potenti uccise, Siḥon re dell’amorrita, e ‘Og re di Bašan e tutti i potentati di Canaan. E diede le loro terre in eredità, eredità a Israele il Suo popolo. Signore, il Tuo nome è in eterno. Signore, il Tuo ricordo è di generazione in generazione, perché giudicherà il Signore il Suo popolo e dei suoi servi avrà compassione. Gli idoli delle nazioni sono argento e oro, opera di mani d’uomo. Hanno una bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchie e non sentono, né c’è un soffio sulle loro labbra. Come loro saranno quelli che li fanno, quelli che in essi confidano. Casa di Israele, benedite il Signore, casa di Aronne, benedite il Signore, casa di Levi, benedite il Signore, voi che temete il Signore, benedite il Signore. benedetto è il Signore da Sion, Lui che abita in Gerusalemme, halleluyah!

הַ֥לְלוּיָ֨הּ הַֽ֖לְלוּ אֶת־שֵׁ֣ם יְהֹוָ֑ה הַֽ֜לְל֗וּ עַבְדֵ֥י יְהֹוָֽה

שֶׁעֹ֣מְדִים בְּבֵ֣ית יְהֹוָ֑ה בְּ֜חַצְר֗וֹת בֵּ֣ית אֱלֹהֵֽינוּ

הַֽלְלוּיָהּ כִּי־ט֣וֹב יְהֹוָ֑ה זַמְּר֥וּ לִ֜שְׁמ֗וֹ כִּ֣י נָעִֽים

כִּֽי־יַֽעֲקֹ֗ב בָּחַ֣ר ל֣וֹ יָ֑הּ יִ֜שְׂרָאֵ֗ל לִסְגֻלָּתֽוֹ

כִּ֚י אֲנִ֣י יָדַעְתִּי כִּֽי־גָד֣וֹל יְהֹוָ֑ה וַֽ֜אֲדֹנֵ֗ינוּ מִכָּל־אֱלֹהִֽים

כֹּ֚ל אֲשֶׁר־חָפֵ֥ץ יְהֹוָ֗ה עָ֫שָׂ֥ה בַּשָּׁמַ֥יִם וּבָאָ֑רֶץ בַּ֜יַּמִּ֗ים

וְכָל־תְּהֹמֽוֹת

מַֽעֲלֶ֣ה נְשִׂאִים֘ מִקְצֵ֪ה הָ֫אָ֥רֶץ בְּרָקִ֣ים לַמָּטָ֣ר עָשָׂ֑ה

מ֥וֹצֵא ר֜֗וּחַ מֵאֽוֹצְרוֹתָֽיו

שֶֽׁהִכָּה בְּכוֹרֵ֣י מִצְרָ֑יִם מֵֽ֜אָדָ֗ם עַד־בְּהֵמָֽה

שָׁלַ֚ח אוֹתֹ֣ת וּ֖מֹֽפְתִים בְּתוֹכֵ֣כִי מִצְרָ֑יִם בְּ֜פַרְעֹ֗ה

וּבְכָל־עֲבָדָֽיו

שֶֽׁהִכָּה גּוֹיִ֣ם רַבִּ֑ים וְ֜הָרַ֗ג מְלָכִ֥ים עֲצוּמִֽים

לְסִיח֚וֹן מֶ֚לֶךְ הָֽאֱמֹרִ֗י וּ֖לְעוֹג מֶ֣לֶךְ הַבָּשָׁ֑ן וּ֜לְכֹ֗ל

מַמְלְכ֥וֹת כְּנָֽעַן

וְנָתַ֣ן אַרְצָ֣ם נַֽחֲלָ֑ה נַֽ֜חֲלָ֗ה לְיִשְׂרָאֵ֥ל עַמּֽוֹ

יְהֹוָה שִׁמְךָ֣ לְעוֹלָ֑ם יְ֜הֹוָ֗ה זִכְרְךָ֥ לְדֹֽר־וָדֹֽר

כִּֽי־יָדִ֣ין יְהֹוָ֣ה עַמּ֑וֹ וְעַל־עֲ֜בָדָ֗יו יִתְנֶחָֽם

עֲצַבֵּ֣י הַ֖גּוֹיִם כֶּ֣סֶף וְזָהָ֑ב מַֽ֜עֲשֵׂ֗ה יְדֵ֣י אָדָֽם

פֶּֽה־לָ֖הֶם וְלֹ֣א יְדַבֵּ֑רוּ עֵינַ֥יִם לָ֜הֶ֗ם וְלֹ֣א יִרְאֽוּ

אָזְנַ֣יִם לָ֖הֶם וְלֹ֣א יַֽאֲזִ֑ינוּ אַ֜֗ף אֵ֖ין יֶשׁ־ר֣וּחַ בְּפִיהֶֽם

כְּמוֹהֶם יִֽהְי֣וּ עֹֽשֵׂיהֶ֑ם כֹּ֖ל אֲשֶׁר־בֹּטֵ֣חַ בָּהֶֽם

בֵּ֣ית יִ֖שְׂרָאֵל בָּֽרְכ֣וּ אֶת־יְהֹוָ֑ה בֵּ֥ית אַֽ֜הֲרֹ֗ן בָּֽרְכ֥וּ

אֶת־יְהֹוָֽה

בֵּ֣ית הַ֖לֵּוִי בָּֽרְכ֣וּ אֶת־יְהֹוָ֑ה יִרְאֵ֥י יְ֜הֹוָ֗ה בָּֽרְכ֥וּ אֶת־יְהֹוָֽה

בָּ֘ר֚וּךְ יְהֹוָ֨ה מִצִּיּ֗וֹן שֹׁ֘כֵ֚ן יְרֽוּשָׁלִָ֗ם הַֽלְלוּיָֽהּ

Il Salmo 135 (che fa parte del grande Hallel),24 una bellissima lode a Dio attraverso l’esposizione dei suoi miracoli per Israele, è anche un esempio di intertestualità biblica, perché riassume gli eventi della Creazione e dell’uscita dall’Egitto, e poi le guerre con i cananei per la conquista della terra promessa, narrati dalla Genesi fino al Libro di Giosuè. Dio, come spesso nella poesia biblica, è ritratto come dominatore degli elementi della natura e soprattutto come signore della pioggia; tra le immagini particolarmente pregnanti, vi è qui quella dei venti che Dio estrae dal suo tesoro, una metafora che rimanda al sostrato di poesia e mitologia cananaica da cui la Bibbia attinse abbondantemente (Xella, 1982, pp. 60-63).

Per quanto riguarda la traduzione giudeo-provenzale, si nota subito che il traduttore non ha l’intento di trasporre nella lingua d’arrivo la bellezza stilistica e letteraria dell’originale; egli è invece interessato a renderne parola per parola il senso.

Frasi come Boca a els e non parlan, ulhz a els e non vezon, aurelhas a elz e non auzon altro non sono che calchi sintattici dall’ebraico, dove non esiste il verbo avere e neppure il verbo essere (al presente): per costruire il possesso, si accosta il complemento di termine al sostantivo che funge da soggetto e che indica la cosa posseduta: bocca (è) a loro (Boca a els) = essi hanno una bocca. Questa struttura sintattica, del tutto priva di senso in provenzale, ha ragion d’essere solo nell’ambito di una traduzione-calco di questo tipo. Anche tutte le reggenze del verbo seguono l’ebraico: fizar en; salmejar a, etc.

L’espressione a segle traduce costantemente l’ebraico le-‘olam “per sempre”. Da questo punto di vista, segle è una resa perfetta di ‘olam (“mondo” ma anche “eternità”) perché comprende al contempo un’idea spaziale (“mondo”) e temporale (“secolo”). Da questo esempio si comprende quindi come sia fine e intenso il lavoro che il traduttore – e alle sue spalle le scuole che si occupavano di traduzioni del testo sacro – compie per rendere pienamente il senso e l’etimologia dei termini ebraici. L’effetto non letterario e alienante della resa giudeo-provenzale non è affatto dovuto a una mancanza di cura nella traduzione, al contrario. Semplicemente l’obiettivo è usare la lingua romanza come una sorta di pellicola trasparente dell’ebraico: essa deve aderire, e avvolgerlo, completamente, lasciando visibile ciò che vi è sotto.

Interessante, infine, la traduzione amasament per “idolo”. Si tratta di una parola provenzale esistente (amasamen significa ‘ammasso’)25 ma impiegata con un significato ben diverso da quello attestato. In questo caso la forzatura semantica vuole probabilmente rendere l’etimologia dell’originale ebraico e al contempo, nella sua generalità, fungere da eufemismo rispetto al più forte (rispetto alla cultura ebraica) “idolo”. Il termine impiegato in questo passo nell’ebraico è ‘eṣev (עצב), che deriva da una radice ‘aṣav (עצב) che significa “tristezza”.

Posto che i traduttori debbano avere immaginato gli idoli come una massa confusa di statuette (in opposizione all’unico vero Dio trascendente e irrappresentabile), come si arriva a amasament da una radice che indica tutt’altro? La mia ipotesi è che si tratti di una falsa etimologia ricavata dalla radice ’aṣar (אצר) che significa in effetti “ammassare”. L’accostamento etimologico tra radici diverse, le cui consonanti siano simili foneticamente o graficamente, è un procedimento tipico della grammatica ebraica nel Medioevo. Assai diffuse erano le opere lessicografiche che avevano come oggetto di indagine la lingua biblica, catalogata per radici. All’interno delle varie radici, non è affatto insolito in questi dizionari medievali vedere elencate parole che non appartengono alla radice in questione, ma ad altre che, simili per suono, hanno un significato che si ritiene più congeniale a quello del termine in questione (Rothschild, 2012, p. 86). In questi casi, non è insolito che accanto alla parola ebraica di difficile catalogazione appaia anche un laaz, ovvero una glossa in lingua giudeo-romanza, che rimarca definitivamente l’interpretazione del lessicografo. La scelta di amasament è in tutta evidenza una traduzione interpretativa (Sermoneta, 1974, pp. 32-33), che riflette il pensiero di una scuola o di un maestro: altrove lo stesso termine sarà reso in altro modo, secondo la sensibilità di un altro maestro o di un’altra scuola.26 Con quest’ultimo termine vediamo come la ricerca scolastica sulla lingua sacra possa essere applicata nella traduzione giudeo-provenzale di un libro di preghiere, che sarà a sua volta usato nella quotidianità di una famiglia devota.

3. GIUDEO-PROVENZALESCOLASTICOEPARLATO’: QUALCHE CONSIDERAZIONE

Come si è visto, la lingua in cui è reso l’originale sacro è artificiale, confezionata a tavolino secondo un metodo antico e costante appreso a scuola. È inimmaginabile che questo linguaggio corrispondesse a quello realmente parlato dagli ebrei avignonesi del Quattrocento, o anche di epoche precedenti.

Ciò detto, si pone comunque la questione seguente: è possibile riscontrare, oltre alla lingua scolastica e artificiale, qualche spia del parlato nel testo del siddur? Sarebbe anche solo interessante comprendere che genere di relazione si instaurasse, nella mente di chi usava questo Siddur, tra la lingua che vi leggeva, arcaica, scolastica, rituale, e il proprio linguaggio di tutti i giorni. Posto che questa resta una questione aperta, desidero proporre qualche riflessione a riguardo, analizzando il Salmo 20 (ff. 59r-60r).

מזמור לדוד

Salme a David. Respondera tu sant e benezet en jorn de tribla, isauzara tu nom de [59v] Dieu de Ya‘aqov. Trametra ton aitoria, de Ṣion ajudara tu! Plairara totas tas hadyias e tas ausaduras engraissara a segle! Donara a tu con ton cor ton conselh complira. Cantarem en<ta>salvazion e en nom de nostre Dieu afolcarem, complira sant e benezet totas tas domandas. Aras sai que salvet sant benezet son unh; respondera el de cels de sa santoaria en vasalatge de salvazion de sa derecha. Cist am caireca e cist en cavals. E nos en nom de Dieu mentaurem. Els declineron e caigueron e nos levem e forem isauzatz. Sant e benezet salva, [60r] lo rey respondera nos en jorn de nostre clamar.

Al capo del coro, un salmo di Davide

Ti risponda il Signore nel giorno della distretta, ti fortifichi il nome del Dio di Giacobbe, invii il tuo soccorso dal Santuario e da Sion ti supporti.

Si ricordi di tutte le tue offerte e gradisca le tue offerte per sempre.

Ti dia secondo il tuo cuore e soddisfi tutto il tuo consiglio.

Canteremo per la Tua salvezza e nel nome del nostro Dio ci assembleremo. Possa il Signore soddisfare tutte le tue richieste!

Ora so che il Signore ha salvato il Suo unto, gli ha risposto dai suoi cieli di santità, con la forza di salvezza della sua destra.

Questi i carri, quelli i cavalli, ma noi il nome del Signore nostro Dio ricordiamo.

Loro si sono piegati e sono caduti, noi ci siamo alzati e ci siamo messi in piedi.

Signore, salva, che il re ci risponda quando lo chiamiamo!

לַֽמְנַצֵּ֗חַ מִזְמ֥וֹר לְדָוִֽד

יַֽעַנְךָ֣ יְ֖הֹוָה בְּי֣וֹם צָרָ֑ה יְ֜שַׂגֶּבְךָ֗ שֵׁ֚ם אֱלֹהֵ֬י

יַֽעֲקֹֽב

יִשְׁלַ֣ח עֶזְרְךָ֣ מִקֹּ֑דֶשׁ וּ֜מִצִּיּ֗וֹן יִסְעָדֶֽךָּ

יִזְכֹּ֥ר כָּל־מִנְחֹתֶ֑יךָ וְ֜עוֹלָֽתְךָ֗ יְדַשְּׁנֶ֣ה סֶּֽלָה

יִֽתֶּן־לְךָ֥ כִלְבָבֶ֑ךָ וְֽכָל־עֲצָֽתְךָ֥ יְמַלֵּֽא

נְרַ֚נְּנָ֨ה בִּ֘ישׁ֚וּעָתֶ֗ךָ וּבְשֵׁם־אֱלֹהֵ֥ינוּ נִדְגֹּ֑ל יְמַלֵּ֥א יְ֜הֹוָ֗ה כָּל־מִשְׁאֲלוֹתֶֽיךָ

עַתָּ֚ה יָדַ֗עְתִּי כִּ֚י הוֹשִׁ֥יעַ יְהֹוָ֗ה מְשִׁ֫יח֥וֹ יַֽ֖עֲנֵהוּ מִשְּׁמֵ֣י קָדְשׁ֑וֹ בִּ֜גְבוּר֗וֹת יֵ֣שַׁע

יְמִינֽוֹ

אֵ֣לֶּה בָ֖רֶכֶב וְאֵ֣לֶּה בַסּוּסִ֑ים וַֽאֲנַ֓חְנוּ

בְּשֵׁם־יְהֹוָ֖ה אֱלֹהֵ֣ינוּ נַזְכִּֽיר

הֵמָּה כָּֽרְע֣וּ וְנָפָ֑לוּ וַֽאֲנַ֥חְנוּ קַּ֜֗מְנוּ וַנִּתְעוֹדָֽד

יְהֹוָ֥ה הוֹשִׁ֑יעָה הַ֜מֶּ֗לֶךְ יַֽעֲנֵ֥נוּ בְיֽוֹם־קָרְאֵֽנוּ

Anche nel caso di questo salmo, vediamo ricorrere il solito provenzale-calco, fedelmente adeguato all’ebraico, ma un termine salta subito all’occhio come “non provenzale”: si tratta del termine hadyia, arabo, che significa “dono”, impiegato per tradurre l’ebraico minḥah, “offerta”. Il termine minḥah nella Bibbia designa un’offerta al Signore e poi, nel culto legato al Tempio, l’offerta quotidiana del pomeriggio; infine, a seguito della distruzione del Tempio, minḥah indica la preghiera pomeridiana.

Perché tradurre un termine specifico del rituale, che ci aspetteremmo fosse mantenuto in ebraico (come avviene nel caso di un altro termine che indica un altro tipo di offerta al Tempio, ḥata’at l’offerta per discolparsi)? E perché, se si sente la necessità di tradurlo, non farlo in giudeo-provenzale (come un altro termine ancora, ‘olah, reso in questo stesso salmo e altrove con aussadura, coerentemente alla sua etimologia, visto che vuol dire “ciò che sale”)? Perché l’arabo, o meglio, il giudeo-arabo?

Come si è visto nel caso di amasament “idolo”, tradurre è interpretare e alcuni termini, in genere dal significato poco acclarato, possono presentare traduzioni e rese diverse in testi differenti, perché riflettono ciascuno la particolare scelta traduttiva del traduttore. L’analisi delle specifiche scelte di traduzione, nell’ambito di termini variamente interpretati, è sempre interessante per ricostruire le fonti di cui disponeva il traduttore.

In particolare, il termine hadyia traduce tradizionalmente minḥah dai tempi di Saadya Gaon (cioè dalla Babilonia abbaside del X secolo), che lo fissò come alter ego giudeo-arabo di minḥah.27 E da lì la glossa si diffuse, non ovunque, non sempre, ma solo presso le scuole di traduttori che apprezzavano questa traduzione, che non sono poche: ci sono testimonianze in giudeo-spagnolo, giudeo-francese e nel Maqrè dardekè (dizionario giudeo-italiano con glosse arabe pubblicato nel 1488) (Blondheim, 1910, p. 172). La presenza del termine hadyia nel nostro siddur è dunque una scelta interpretativa del traduttore/copista, e della scuola a cui appartiene.

Forse, nel contesto giudeo-arabo in cui nacque l’equivalenza minḥah = hadyia, si sentì la necessità di specificare che tipo di offerta fosse minḥah, traducendolo per darne un’interpretazione, perché in arabo esiste la stessa parola, minha, che indica sempre un dono, ma con un senso diverso da quello del rito del Tempio,28 che rischiava di sovrapporsi semanticamente, e involontariamente, nella testa di chi parlava l’arabo come prima lingua. In seguito, la glossa viaggiò e per la sua auctoritas si diffuse, trasmise e mantenne anche in ambienti non arabofoni, in cui questa disambiguazione rispetto all’arabo non avrebbe più avuto lo stesso scopo.

Per un ebreo provenzale che non conosceva l’arabo (come era ormai il caso dei più, nel XV secolo), hadyia molto probabilmente suonava ebraico, tutt’al più aramaico (certo non provenzale!), e sarà stato considerato alla stregua di tefillin per ṭoṭafot.

Nel siddur giudeo-provenzale hadyia traduce sempre minḥah quando il termine compare nei testi del rito ed è intesa quindi come offerta o specificamente come sacrificio pomeridiano del Tempio. Il termine minḥah compare, però: nelle didascalie annotate dal copista per ricordare che bisogna recitare un determinato testo a minḥah, cioè quando questo termine indica la preghiera pomeridiana.

Forse è un modo per distinguere linguisticamente il sacrificio del Tempio, un evento antico, espresso da un termine remoto, rispetto alla preghiera di tutti i giorni; sicuramente è una forte prova di come il copista sapesse distinguere quando impiegare la lingua tradizionale e desueta, tipica della traduzione del testo sacro, e quando ricorrere alla lingua corrente. Da una parte, dunque, abbiamo la lingua elevata, arcaica e suggestiva della traduzione sacra, ed essa parla di un giudeo-provenzale scritto, stilizzato, letterario quasi, che leggevano uomini e donne di una comunità ebraica della Provenza di fine Quattrocento quando recitavano le preghiere, e ad esse lo associavano; le didascalie invece, che sono testi avventizi, di supporto alla comprensione, sono più vicini all’orale e ci suggeriscono almeno in parte come parlassero quegli stessi uomini e donne. Il confronto tra questi due ambiti stilistici dà spessore al giudeo-provenzale, mostra come sia una lingua stratificata, viva nelle sue varietà diafasiche.29

4. “AGARENTIRAN E NUNZARAN TOTZ ELZ ENSEMS”: TRADUZIONE IN GIUDEO-PROVENZALE DI UN PIYYUṬ

Tra le preghiere e i canti del nostro siddur, che in genere come s’è visto sono rappresentati dai salmi biblici o dai testi più correnti del rituale, forgiati comunque sull’ebraico biblico o costituiti da un mosaico di versetti, compare un piyyuṭ di Šelomoh ibn Gabirol.

L’autore, poeta sefardita dell’età d’oro,30 è a quanto ci risulta l’unico rappresentante all’interno del ms. Roth 32 della splendida stagione medievale del piyyuṭ. Normalmente i siddurim non contengono i piyyuṭim associati ai vari momenti del rito; per essi c’è spazio nei maḥzorim, libri di preghiere più ampi, comprensivi appunto anche dei canti liturgici.31 Tuttavia, certi piyyuṭim (molto pochi e sempre gli stessi) compaiono nei siddurim, come è il caso del piyyuṭ in questione.32

Uno dei punti più interessanti di questo canto è che contiene alcune evidenti allusioni al Sefer yeṣirah, manuale mistico sui segreti della Creazione che all’epoca di Ibn Gabirol era già ampiamente approdato in Occidente, ottenendo attenzione e commenti (Kaplan, 2016, pp. 27-32). Quando, infatti, il poeta parla delle trentadue vie di Dio (in giudeo-provenzale esse diventano le trenta e dos plasas de tas carieras), si riferisce al celebre esordio del Sefer yeṣirah: “con trentadue vie mistiche di sapienza Dio incise…”. Le “trentadue vie” sarebbero le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico insieme con le dieci sefirot, attraverso le cui combinazioni Dio creò il mondo.

Il piyyuṭ compare, nel Siddur giudeo-provenzale, alla fine dei Pesuqé de-zimra33 da recitare durante la settimana, tanto che una nota a margine suggerisce che invece di Šabbat lo si debba sostituire con la preghiera Nišmat kol-ḥay.34

Qui presento il testo giudeo-provenzale in parallelo con l’ebraico, che fu anch’esso trascritto nel manoscritto, e che si può considerare a tutti gli effetti come un ulteriore testimone del poemetto. Come si coglie dal fatto che il testo ebraico sia trascritto nel margine sinistro della pagina, esso fu copiato in un secondo tempo, dopo che si era provveduto a tradurlo e trascriverlo in giudeo-provenzale a partire dal modello. Questa sequenza di trascrizione è evidente anche dal confronto tra il testo ebraico e quello giudeo-provenzale, che presentano alcuni errori distintivi.

Dopo aver presentato il doppio testo ebraico-giudeo-provenzale, fornisco una traduzione italiana “di servizio”, effettuata a partire dall’ebraico.35

יעידון יגידון36

יגידון כלם כאחד

Agarentiran e nunzaran totz elz ensems<ons>:

Sant Benezet un e son nom un.

Trenta e dos plasas de tas carieras

azarvertent lur fondamenta, retrairan37 ta grandeza,

d’elz conoissiran car lo tot es tieu,

Sant Benezet mon governador sol e azunat.

יי״ אחד ושמו אחד

[שלשי]38 [37בּ] שלשים ושתים נתיבות שבילך

למבין39 יסודם יספרו גדלך

מהם יכירו40 כי הכל שלך

(יי״) רועי יחיד מיוחד.41

Corais en lur pensar segle bastit

troban que tot cant es estier [39r] tu es tresmudat.

Am nombre e am pes tot cant es es nombrat,

tot es aordenat de governador un.

לבבות בחשבם עולם בנוי

ימצאו42 כל יש בלתך שנוי

במספר במשקל הכל מנוי43

כלם נתנו מרועה אחד

De cap entro la fin tu es al mont senhal.

Darom e Ṣafon, Mizraḥ e Ma‘arav,

lo cel e aques(t) mont a tu garentz lials.

De ça e de ça un

מראש ועד סוף יש לך סימן

צפון ומזרח מערב44 ותימן

שחק ותבל לך עד נאמן

מזה אחד ומזה אחד

Lo tot es de part tu amazad amaza(d)as.

Tot lo mont perira e tu seras estat;

perzo per tot criat en tu seras onorat.

Del cap entro la fin non es Dieu se non un.

Agarentiran e nunzaran totz elz con un,

Sant Benezet un e son nom un.

הכל ממך [נזבד]45 [38א] נזבד זבוד

אתה תעמוד והם יאבדו אבוד

לכן כל יצור לך יתן כבוד

מראש ועד סוף הלא אב אחד

יעידון יגידון וכו׳.46

Testimonieranno e racconteranno tutti insieme che il Signore è uno e il Suo nome è uno. Trentadue vie della tua strada a chi comprende i loro fondamenti racconteranno della tua grandezza, e da esse sapranno che tutto è Tuo, (Signore), mio pastore solo, unico.

Gli intelletti, quando pensano al mondo che è stato costruito, troveranno che tutto ciò che c’è eccetto Te è doppio.47 Con il numero e il peso tutto viene enumerato, tutto è dato dal pastore unico.48 Dal principio alla fine c’è per te un segno. Il Nord, l’Est, l’Ovest, il Sud, il cielo e il mondo ti sono testimoni fedeli.49 Di qua e di là,50 tutto da te è donato. Tu resterai saldo mentre tutti periranno. Per questo ogni creatura Ti onora. Dal principio alla fine Tu sei certamente un padre unico. Testimonieranno e racconteranno, etc.

Con il canto di Šelomoh ibn Gabirol ci troviamo di fronte a un testo di alto profilo poetico, coerente con il genere letterario cui appartiene: riconosciamo uno schema metrico, costituito di strofe di quattro versi, i primi tre a rima baciata seguiti dal quarto, che ha una rima fissa e che riprende la rima del preludio (BBaaaBcccBdddB);51 il contenuto altamente filosofico, in cui si argomenta l’unità di Dio in contrasto con la molteplicità del creato, che è il pilastro della fede ebraica, non cela come s’è visto allusioni mistiche e dirette riprese del Sefer yeṣirah, ma è anche impreziosito, come sempre avviene nella poesia liturgica ebraica, di citazioni bibliche, inserite “a mosaico” secondo la tecnica dello šibbuṣ (Tamani, 2004, pp. 34-37). Nonostante dunque il testo di partenza sia assolutamente peculiare anche rispetto all’alta poesia biblica ampiamente presente nel siddur in traduzione giudeo-provenzale, vediamo la lingua-calco non discostarsi nemmeno in questo caso dal suo metodo di mera riproduzione dell’originale. Tuttavia, vi è un’attenzione almeno a riproporre, ove possibile, la rima, o se non altro una assonanza/consonanza. A questo proposito, merita attenzione il verso che riporta i nomi dei punti cardinali. I punti cardinali sono i tipici termini in “merged Hebrew” presenti nelle traduzioni giudeo-romanze (Mayer Modena, 2003, p. 65). Ora, nell’ebraico contenuto nel nostro manoscritto, rispetto alla versione standard di questo piyyuṭ, già troviamo una sostituzione parziale dei termini attesi in “whole Hebrew” (qedem = Est; yam = Ovest) con quelli in “merged Hebrew” (mizraḥ = Est; maarav = Ovest), evidentemente per lapsus del traduttore/copista; a essere conservato è teman = Sud (il termine “merged” sarebbe darom, che compare puntualmente nel giudeo-provenzale), probabilmente perché è la parola che dà la rima.

Nel provenzale vediamo comparire come ci attenderemmo i termini “merged”, ma li troviamo in un ordine diverso rispetto all’ebraico: considerando quanto la traduzione-calco sia attenta nel rispettare l’ordine delle parole, anche a scapito della sintassi o del senso, si tratta di una situazione insolita. Tuttavia, se immaginiamo che il traduttore abbia voluto conservare la rima anche nel testo d’arrivo, forse possiamo capire il perché del mutamento di posizione nel verso:

De cap entro la fin tu es senhal.

Darom e ṣafon, mizraḥ e ma‘arav […]

Apparentemente non in rima, senhal : ma‘arav lo diventano se supponiamo che la pronuncia fosse senhau: ma‘arau; che la bet a fine parola preceduta da vocale fosse pronunciata [ṷ] dagli ebrei di Provenza, è un dato di fatto;52 quanto alla laterale, essa può venire pronunciata [ṷ] a fine parola in alcune parti del dominio occitano.53 Abbiamo qui, a mio parere, un interessante caso di conservatorismo grafico (senhal continua a essere scritto con la l) accanto a un indizio sulla effettiva pronuncia di chi approntò la traduzione (e quindi forse sulla localizzazione del testo). Inoltre, il fatto che vi sia lo sforzo da parte del copista di mantenere la rima, sembrerebbe suggerire che il testo in giudeo-provenzale fosse anche cantato sulla melodia del piyyuṭ.

5. LO ŠEMA‘ ISRAEL: UN CONFRONTO TRA TRADUZIONI GIUDEO-ROMANZE

Un’annosa questione, nell’ambito delle lingue giudeo-romanze medievali, riguarda gli stringenti parallelismi tra traduzioni (giudeo-spagnola, giudeo-catalana, giudeo-provenzale e giudeo-italiana). Un margine di variazione, naturalmente, vi è persino all’interno di uno stesso corpus (come dimostrano certe differenti scelte linguistiche, soprattutto lessicali e grammaticali, nei siddurim giudeo-italiani studiati da Michael Ryzhik)54 e, a maggior ragione, questo avviene tra domini linguistici diversi. Nondimeno, le affinità lessicali e testuali che vi si riscontrano sono talmente forti che sembra impossibile non ipotizzare un comune modello, forse già latino (Blondheim, 1925). In questo spazio confronterò lo Šema‘ Israel55 del rituale giudeo-italiano (secondo la stampa di Fano del 1506)56 con quello giudeo-provenzale (cc. 44r-46v: riportiamo nella nostra edizione anche il testo ebraico presente nel ms. nelle stesse carte), che per la sua importanza nella liturgia ebraica fu di sicuro uno dei primi testi ad essere tradotto nelle varie tradizioni giudeo-romanze e, quindi, risulterà particolarmente conservativo nel suo lessico.57

Ebraico

אל מלך נאמן:

שמע ישראל יי׳ אלהינו יי׳ אחד. ואהבת את יי׳ אלהיך בכל לבבך ובכל נפשך ובכל מאדך, והיו הדברים האלה אשר אנכי מצוך היום על לבבך, ושננתם לבניך ודברת בם בשבתך בביתך, בלכתך בדרך [44בּ] ובשכבך ובקומך וקשרתם לאות על ידך58 ו[היו] לטטפות בין עיניך, וכתבתם על מזזות ביתך בשעריך והיה אם שמוע תשמעו אל מצותי אשר אנכי מצוה אתכם היום לאהבה את יי׳ אלהיכ׳ ולעבדו בכל לבבכם [ובכל נפשכם] ונתתי מטר ארצכם בעתו יורה ומלקוש ואספת דגנך [ו]תירושך ויצהרך ונתתי עשב בשדך לבהמתך ואכלת ושבעת [45א] השמרו לכם פן יפתה לבבכם וסרתם ועבדתם אלהים אחרים והשתחויתם להם, וחרה אף יי׳ בכם ועצר את השמים ואת ולא יהיה מטר והאדמ׳ לא תתן את יבולה ואבדתם מהרה מעל הארץ הטובה אשר יי׳ נותן לכם. ושמתם את דברי אלה על לבבכם ועל נפשכם וקשרתם אותם לאות על ידכם והיו לטטפות בין עיניכם [45בּ] ולמדתם אותם את בניכם לדבר בם בשבתך בביתך ובלכתך בדרך ובשכבך ובקומך וכתבתם על מזוזות ביתי׳ ובשעריך, למען ירבו ימיכם וימי בניכם על האדמה אשר נשבע יי׳ לאבתיכם לתת להם כימי השמי׳ על הארץ. ויאמר יי' אל משה לאמר דבר אל בני ישראל ואמרת אליהם [46א] ועשו להם ציצת על כנפי בגדיהם לדורותם ונתנו על ציצת הכנף פתיל תכלת. והיה לכם לציצת וראיתם אותו וזכרתם את כל מצות יי׳ אלהיכם ועשיתם אתם, ולא תתורו אחרי לבבכם ואחרי עיניכם אשר אתם זונים אחריהם. למען תזכרו ועשיתם אותם את כל מצותי והייתם קדושים לאלהיכם. אני יי׳ אלהיכם אשר הוצ‹א›תי אתכם מארץ [46בּ] מצרים להיות לכם לאלהים אני יי' אלהיכם.

Provenzale

אל מלך נאמן שמע ישראל יי׳ אלהינו יי׳ אחד

Bendig nom de onor de son reisme a segle e a sempre [44v] E amaras sant e benezet, ton Dieu, en tot ton cor e en tota ta arma e en tot ton aver, e seran las paraulas aquestas que ieu comandant ui sobre ton cor, e maudaras elas a tos enfanz e parlaras en elz, en ton sezer a ta maizon, e en ton anar per camin, e en ton colcar e en ton levar, e liaras els a senhas sobre tas mans e seran a tefillin enfre tos ulhz, e escriuras elz sobre plasteraias de ton ostal e en tas portas. [45r] E sera si auzir auzires a mas comandamentas que ieu comandant vos uy, a amar sant benezet vostre Dieu, e a servir el en tot vostre cor e en tota vostra arma. E donarai pluja de vostra terra en son temps primairenc e tarziu, e amassaras ton forment e ton most e ton oli, e darai erba en ton canp a ta bestia, e manjaras e sadolaras. Sias gardaz a vos de quant abetarie vostre cor e [45v] redarias e servirias dieu59 autres e soplegarias a els, e iraisie ira de sant benezet en vos, e retenria lo cel e non serie pluja, e la terra non daria son blat, e deperderias … totztost› de sobre la tera la bona que sant benezet donant a vos. E metres mas paraulas aquestas sobre vostre cor e sobre vostra arma e liares els a senha sobre vostra man e seran a tefillin enfre vostre ulhs, e ensenha ‹ras› [46r] elz a vostres enfanz a parlar en elz, en ton sezer en ta maison, e en ton anar en camin, [e] en ton colcar e e en ton levar. E escriuras elz sobre plasteraias de tas maizons e en tas portas. Pero creisseran vostres jornz, e jornz de vostres enfanz, sobre la terra que juret sant benezet a vostres pairons a donar a vos con tems dal cel sobre la terra.60 [46v] E dis sant benezet a Moshè a dir ‘Parla a enfanz di Israel e digas a elz e fassan a elz ṣiṣit sobre angles de lor vestir a lor gerazion e metan sobre ṣiṣit del angle filo blau e sera a vos a ṣiṣit e veires el e renembrares totas comandamentas de Sant Benezet e fares elz e non cercares apres vostre cor ni apres vostres ulhz que vos sagenz apres elz. Pero que renembrares e fares totas [47r] mas comandamentas e seres sanz a vostre Dieu. Ieu Sant Benezet vostre Dieu que traisse vos de tera de Miṣrayim per esir a vos a Dieu, ieu Sant Benezet vostre Dieu.

Italiano

E dice questo šema‘: enteni Isra’el Domedet Det nostro Domedet uno. Benedetto sia lo nome delo onore delo emperio suo a secolo e a sempre. E amarai a Domedet Det tuo en tutto lo core en tutto l’animo tuo e en tutto lo avere tuo, E siano li paroli questi che io comano a te oggio sopra lo core tuo. E maltarai essi alli figlioli toi e favellarai en essi nello sedere tuo nella casa toa e nello gire tuo per la via e nello colcare tuo e nello levare tuo. E leghi essi a seno sopre li mani toi e sieno a tefillin enfra occhi toi. E scrivi essi sopre li balistrati della casa toa e nelli porti toi. E sarà se entenenno entennereti alli comannamenti mei che io comanno a voi a amare Domedet vostro e a servire esso en tutto lo core e en tutto lo anemo vostro. E darajo pioggia nella terra vostra nello tempo suo primonieco e tardio e aricolgerai lo lavore tuo e lo mosto tuo e lo olio tuo. E darajo erva nello canpo tuo per la bestia toa e manecarai e stolerai. Guardeti a voi en quanno semunisca lo core vostro e cessariteve e servereti dei altri e salutareti a essi. E adirarassi lo forore de Domedet en voi e strengerasse li celi e non sarà pioggia e la terra non darà lo lavore suo e deperdereteve en aino da sopre la terra bona che Domedet deo a voi. E ponereti li paraole mei questi sopre lo core vostro e sopre lo animo vostro e legareti essi a seno sopre li mani vostri e saranno a tefillin enfra l’occhi vostri. E nescereti essi agli figlioli vostri a favellare en essi nello sedere tuo nella casa toa e nello gire tuo per la via, nello colcare tuo e nello levare tuo, e scrivi essi sopre li balestrati della casa toa e nelli porti toi. Per chi se moltepecaranno li di vostri e li di delli figlioli vostri sopre la terra che en promesse Domedet alli patri vostri a dare a essi come di delli celi sopre la terra. E disse Domedet a Moshè a dire: “favella alli figlioli di Isra’el e dirai a essi e faranno a essi pennagli sopre li lenzole delli panne loro alle genorazii e daranno sopre le penagli la lanzola uno filo de veneto.61 E sera a voi a pennaglia e vedereti esso e rencordareti tutti li comannamenti de Domedet e fareti essi e non veratecheti dreto a lo core vostro e dreto all’ocli che voi (veratecheti) [forniziti?] dreto de essi. Perchi vernecordareti e fareti tutti li comannamenti (mei) e sereti santi allo Det vostro. Io Domedet lo Det vostro che trassi voi della terra de Miṣrayim a essere a voi a Det, io Domedet lo Det vostro.

Notiamo qualche differenza: il provenzale non rispetta la posposizione “ebraica” del possessivo, al contrario dell’italiano, anche se ciò può essere dovuto al fatto che in provenzale la serie atona dei possessivi, sempre in funzione aggettivale, deve precedere il nome cui si riferisce (Jensen, 1986, p. 127); vi sono incoerenze, sia nel provenzale sia nell’italiano, nell’uso del futuro e dell’imperativo, fatto più che giustificato, poiché in ebraico la stessa forma può tradurre entrambi; vi sono infine variazioni morfo-sintattiche: l’italiano traduce col presente indicativo quello che in provenzale appare come participio presente (fenomeno ugualmente motivato dall’ebraico). Infine, il provenzale tende a presentare un numero più alto di ebraismi: il primo verso dello Šema‘ non è tradotto, si parla di ṣiṣit e non di pennagli.62

Ciò nonostante, ci troviamo davanti a due testi che spesso compiono delle scelte lessicali molto affini: “ieu […] que traisse vos / io che trassi voi”; “e darai erba en to canp a ta bestia /e darajo erva nello canpo tuo per la bestia toa”; “a segle e a sempre / a secolo e a sempre”, etc. Come dimostrato da Sermoneta, non si tratta di una terminologia necessariamente convergente a causa di un vocabolario che non consente scelta (Sermoneta, 1978b, pp. 210-211). Alle spalle delle due traduzioni, si scorge una tradizione comune: per esempio in entrambi i siddurim occorre il raro verbo “giudaico” maldar/maudare, o l’arcaismo plasteraias/balestrati (Ryzhik, 2013, p. 239), ed entrambi presentano la traduzione interpretativa aver/avere per מאודך (me’odkha), che deriva dal Targum Onqelos (p. 240).

Molti di questi vocaboli comuni alle traduzioni giudeo-italiane e alla nostra giudeo-provenzale sono attestati anche in ambiente cristiano, ma come termini rari, mostrando dunque una specializzazione in ambito giudaico probabilmente alquanto antica, visto che si trovano in corpora linguistici diversi (p. 239 e ss).

Ugualmente, le scelte terminologiche possono divergere pur laddove, in una lingua o nell’altra, sarebbe esistito, volendo, il termine corradicale scelto dall’altra lingua: “temps/dì”; “vestir/panne”; “creisseran vostres jornz/si moltepecaranno li dì vostri”; “juret/promesse”, etc. Come si noterà da questa parzialissima rassegna, le coppie di vocaboli presentano quasi sempre tutte un’etimologia latina. Questa fluttuazione lessicale, dunque, potrebbe essere messa in conto già per epoche pre-romanze.

Sulla base di questa rapida analisi comparativa, sembra di poter affermare che una tradizione antica, in latino, per la traduzione della Bibbia,63 vi fu: la rete di affinità testuali tra le due traduzioni giudeo-romanze è troppo fitta perché si possa pensare alla mera riproduzione di uno stesso metodo applicato al provenzale, all’italiano o a un’altra lingua, senza porre in conto, alla base, un antico modello comune (orale) che dettò scelte terminologiche e semantiche.

Ugualmente, le differenze suggeriscono che questa antica tradizione latina per la traduzione del testo sacro non si realizzò mai in un testo vero e proprio, scritto e definito. Piuttosto, la tradizione giudeo-latina si realizzò nella scuola, che impostò quelle che Ryzhik definisce efficacemente come “general guidelines” (Ryzhik, 2013, p. 254), e operò alcune scelte di resa lessicale, sempre tenendo conto delle varie interpretazioni, ma non fissando definitivamente il vocabolario. Pertanto, si svilupparono tante traduzioni quante erano le scuole che se ne occupavano, vincolate alla tradizione, al suo metodo, alle sue scelte interpretative, ma non a un unico testo. Le micro-differenze apportate in questa fase ancora latina, per esempio nel tradurre יום “giorno” con diurnum o con dies, sarebbero in seguito confluite, con ulteriori varianti accumulatesi per scarti diacronici e diatopici, nelle recenziori traduzioni romanze, provocando questa parvenza di stringente affinità e, al contempo, questa sottile ma costante variabilità che impedisce di appiattire tutte le versioni sullo sfondo di un unico archetipo.

6. CONCLUSIONI

In questa sede ho presentato alcuni testi dal Siddur giudeo-provenzale per dare un assaggio delle varie questioni, soprattutto linguistiche, che emergono dall’indagine del suo contenuto. Ho privilegiato salmi, preghiere e canti liturgici, mentre rimando ad altra sede l’analisi dei brani mišnici, per esempio ba-meh madliqin64 o i già menzionati tredici principi ermeneutici di Rabbi Šemu’el, assai interessanti e che meritano uno spazio di indagine a sé.

In attesa di presentare un’edizione critica dell’intero siddur giudeo-provenzale, mi è sembrato giusto fornire all’attenzione della comunità scientifica nuova materia di indagine e riflessione, riprendendo questioni sul provenzale-calco come lingua scolastica, nel suo rapporto con la tradizione della scuola nell’intero mondo giudeo-romanzo e anche nel suo rapporto con la lingua parlata dalle comunità ebraiche di Provenza.

Un’ultima questione, con la quale concludo, riguarda la possibile esistenza di una traduzione continua e completa in giudeo-provenzale della Bibbia. Gli studiosi, e in primis Cyril Aslanov,65 sono propensi a credere che tale traduzione in giudeo-provenzale sia esistita. Del resto, nelle scuole, tutti traducevano la Bibbia nella propria lingua madre; che dunque le scuole provenzali abbiano provveduto a tradurre in lingua d’oc il testo ebraico della Bibbia, ci pare assodato, tanto per ragioni storiche quanto per una constatazione linguistica: come i testi del siddur (che sono perlopiù brani biblici) qui analizzati dimostrano chiaramente, la loro traduzione non è stata improvvisata.

Aslanov basa la sua argomentazione, tra gli altri punti, anche richiamandosi a Menahem Banitt, il quale sostenne fermamente che in area oitanica, nonostante la mancata evidenza manoscritta, vi sia stata una traduzione francese della Bibbia (Banitt, 1972, p. 167): tramite i glossari abbiamo, di fatto, tutta la Bibbia tradotta, per quanto nella modalità di note interlineari o di appunti al testo ebraico. Nelle scuole oitaniche, infatti, il maestro traduceva e interpretava in francese mentre gli allievi prendevano appunti. Se ciò può valere per la Francia del Nord, dunque, potrebbe benissimo valere anche per l’area occitanica (Aslanov, 2001, pp. 79; 89).

Tuttavia, se si applica tale prospettiva comparatistica, cercando analogie tra le varie tradizioni giudeo-romanze, una questione sorge immediata: se così fosse in Francia, perché in Italia e in Spagna, invece, le traduzioni continue della Bibbia si sono conservate? Si tratta esclusivamente di una fatalità nella trasmissione manoscritta? Certo non si deve dimenticare che l’espulsione degli ebrei francesi, alla fine del XIV secolo, ebbe come primo effetto la confisca dei beni (dunque, anche i libri), seguita dalla integrale diaspora presso altre comunità, alla cui lingua gli ebrei francesi si adattarono, perdendo, nel giro di pochissime generazioni, non solo la maternità linguistica oitanica, ma, conseguentemente, anche le traduzioni francesi, ormai divenute inutili, sostituite da quelle nelle nuove lingue correnti.66

Ora, cosa sarà accaduto in Provenza? Almeno nelle quattro qehillot, infatti, gli ebrei poterono vivere in relativa tranquillità, senza dover migrare, e in un certo isolamento dal resto del mondo ebraico, ciò che sviluppò tradizioni e riti specifici e un patois a sé, lo chuadit, ossia il “giudeo-provenzale” moderno. Tuttavia, di tutto il potenziale lavoro di traduzione in provenzale non ci resta che un siddur. È poco? Non così tanto, in verità: i siddurim, a maggior ragione se tradotti nelle giudeo-lingue, furono oggetto di una confisca e una censura spietate da parte dell’istituzione ecclesiastica, che vi vedeva una possibilità abbastanza facile per i non ebrei di accedere alla loro lettura, poiché bastava imparare i caratteri ebraici. La Provenza fu interessata nel corso del Settecento da vaste campagne anti-ebraiche di confische dei libri indette dal Papato, che ancora possedeva quei territori (Caffiero, 2012, pp. 30-32). Si può immaginare quanti siddurim (ed eventualmente Bibbie tradotte in giudeo-provenzale) siano andati perduti in quell’epoca. Insolito, paradossalmente, è il caso del manoscritto Roth 32, che non solo non fu confiscato, ma non porta neppure segni di censura.

La questione a mio parere risiede nella ragione per cui queste traduzioni venivano trascritte e diventavano libri, e la ragione non era di ordine scolastico. Il siddur giudeo-provenzale, infatti, non appartiene alla scuola. Senz’altro chi lo esemplò fu un copista professionista con un curriculum di tutto rispetto; ma lo scopo per cui fu commissionato era un altro. Era un dono di nozze, concepito per un’utenza femminile che desiderava mostrare il proprio status possedendo un bene di lusso, che senz’altro sarebbe stato usato per devozione.67 Esso pare dimostrare che la traduzione del siddur, e a monte della Bibbia, esisteva, ma anche che solo in rari casi diventava oggetto di una scrittura non avventizia, quando cioè vi era l’interesse da parte di un privato facoltoso nel possedere un bel libro che conferiva prestigio.

7. BIBLIOGRAFIA

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7.1. SITOGRAFIA

Sito sul piyyuṭ e la preghiera ebraica (in ebraico) promosso dall’Università ebraica di Gerusalemme: https://web.nli.org.il/sites/nlis/he/song

Sito sui Jewish Languages: https://www.jewishlanguages.org

Sito sui siddurim in linea: https://www.opensiddur.org/shared/siddurim

7.2. MANOSCRITTI ED EDIZIONI A STAMPA CITATI

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. ebr. 413 (testi di grammatica).

Editio princeps del Siddur secondo il rito italiano, Fano, Gershom Soncino, 1506.

Leeds, Brotherton Library, ms. Roth 32 (siddur giudeo-provenzale).

Paris, Bibliothèque Nationale de France, ms. fr. 22543 (Canzoniere R dei Trovatori)

Paris, Bibliothèque Nationale de France, ms. fr. 1749 (Canzoniere E dei Trovatori)

Paris, Bibliothèque Nationale de France, ms. fr. 12472 (Canzoniere f dei Trovatori)

Parma, Biblioteca Palatina, ms. hebr. 969 (siddur secondo il rito italiano).

_______________________________

1 Mail: erica.baricci@gmail.com. Rothschild Fellow presso l’Università degli Studi dell’Insubria, Como-Varese, Dipartimento di Scienze Umane e dell’Innovazione per il Territorio. Legal Head Office: Via Ravasi 2, 21100 Varese.

2 In questa sede, il termine “giudeo-provenzale” sarà impiegato per designare la lingua provenzale scritta in caratteri ebraici (equivalente a “giudeo-italiano”, “giudeo-spagnolo”, etc.). Per uno studio generale sull’argomento, vd. Aslanov (2001) e Baricci (2022b). Per quanto riguarda, in questo contributo, la trascrizione in caratteri latini del giudeo-provenzale, che nel manoscritto è scritto in lettere ebraiche, si rimanda a Meyer-Neubauer (1892, pp. 196-200) e Lazar (1970, p. 582). In questa sede adotto le medesime convenzioni grafiche di trascrizione. Per la trascrizione dell’ebraico, ho adottato il seguente sistema. Non si indicano le vocali brevi e quelle lunghe. L’articolo determinativo ha- è prefisso alla parola con un trattino, senza il raddoppiamento della consonante iniziale. Lo stesso vale per le altre particelle inseparabili (per es. be-; ba-; we-). א (’) (non iniziale né finale, solo in corpo di parola); בּ, ב (b, v); גּ, ג (g) (sempre occlusiva velare); דּ, ד (d); ה (h); ו (w); ז (z) (da pronunciare fricativa alveolare sonora); ח (ḥ); ט (ṭ); י (y); כּ, כ, ך (k, kh); ל (l); מ,ם (m); נ, ן (n); ס (s) da pronunciare fricativa alveolare sorda); ע (‘); פּ, פ, ף (p, f); צ, ץ (ṣ); ק (q); ר (r); שׂ (ś) (da pronunciare fricativa alveolare sorda); שׁ (š); תּ, ת (t).

3 Per il giudeo-italiano si veda Ryzhik (2013) (con ulteriori riferimenti bibliografici agli studi precedenti); per il giudeo-catalano, Studer (1921, pp. 98-104); per il giudeo-spagnolo diamo qui conto di pochi titoli, rimandando ad essi per ulteriore bibliografia (che è molto ampia): Lazar (1995a e 1995b); Schwarzwald (2012). Non sono stati preservati siddurim in giudeo-francese. Per una panoramica a tutto tondo e una bibliografia aggiornata sulle varie lingue giudeo-romanze (e non solo), si veda il sito https://www.jewishlanguages.org/

4 Sull’utenza femminile: Cassuto (1930, p. 260); Ryzhik (2008a, p. 155; 2013, pp. 231-33). Sulla destinazione del ms. Roth come dono per una sposa: Lazar (1970, pp. 576; 586); Frojmovič (1997, p. 54); Baricci (2014a e 2022a).

5 Essa fa parte delle benedizioni del mattino da recitarsi durante la ‘amidah.

6 Gli altri siddurim noti sono: ms. New York JTSA 8255, c. 5v (1478) e ms. Jerusalem, 8° 5492, cc. 6v-7r (1480), in ebraico.

7 Anno in cui, dopo l’annessione della Provenza alla Francia (1481), fu esteso anche al Midi l’editto di espulsione degli ebrei, in vigore in Francia dal 1394 (e abrogato solo nel 1789 con la Rivoluzione francese). Da quel momento gli ebrei poterono risiedere solo nei territori di proprietà papale, non soggetti dunque alla legislazione francese. Fu così che si formarono le quattro comunità (qehillot o carrièrs), che svilupparono tradizioni e riti specifici e un patois a sé, lo chuadit ovvero la parlata giudeo-provenzale moderna.

8Reif (1993, p. 168). Si veda anche Einbinder (2009, p. 64) e sgg., che rileva varie analogie tra il rito provenzale più antico e quello maghrebino.

9Kaufmann (1871, pp. 20-63). Si veda anche www.opensiddur.org/shared/siddurim

10 Per questa assoluta peculiarità del siddur giudeo-provenzale, si rimanda a Baricci (2022a, pp. 47-48).

11 Per es. si veda f. 58r: «e clin om la cara e dis om taḥana” (“si china la faccia e si dice taḥana); oppure, a margine di f. 35v, dove si legge la nota del copista «cantas” (“cantate”), a indicare che i testi del rituale che seguono vanno cantati (per la questione si rimanda a Baricci (2022a, p. 46)).

12 Per un elenco aggiornato con bibliografia, cf. Baricci (2022b, p. XI).

13 Oltre al siddur, l’unico altro testo parzialmente vocalizzato è Ma‘asé Ester (Baricci, 2014b; Baricci, 2022b), una parafrasi poetica della storia di Ester. Nell’unico manoscritto che lo conserva (Roma, Casanatense 3140, ff. 290v-292r), il testo è vocalizzato nelle prime diciassette righe della prima pagina (corrispondente a circa 1/6 del totale).

14 A un primo studio, si individuano tratti riconducibili a più varietà di occitano e persino alcuni forti catalanismi; sembrerebbe dunque trattarsi di una lingua di carattere sovraregionale che, se inibisce una precisa localizzazione, costituisce tuttavia un interessante parallelismo a quanto avviene in Italia nelle traduzioni medievali giudeo-italiane (Cassuto, 1930; Sermoneta, 1976; Sermoneta, 1978a; Ryzhik, 2008a).

15 La bibliografia sul Siddur giudeo-provenzale è la seguente: Lazar (1970); Jochnowitz (1981); Frojmovič (1997, pp. 54-55); Aslanov (2001); Kahn (2011, pp. 70-73); Ryzhik (2013); Baricci (2014a); Strich-Jochnowitz (2017); Baricci (2022a); accenni in Baricci (2022b).

16Lazar (1970, p. 585). Il motivo per cui riedito il testo dello Šema‘ Israel è duplice: innanzitutto perché, come si vedrà, lo affianco e confronto con la traduzione giudeo-italiana della stampa di Fano 1506 (vd. infra); in secondo luogo perché in questa sede presento non solo l’edizione del testo giudeo-provenzale, ma anche quella del testo ebraico che nel ms. Roth 32 è disposta a fianco del giudeo-provenzale, nel margine sinistro.

17 Rispettivamente il giorno festivo del Sabato (Šabbat); la preghiera aggiuntiva (mussaf) fatta nei giorni festivi; una parte della preghiera quotidiana, da recitare in piedi (‘amidah).

18 “Rabbi Išma’el disse: “in tredici modi è interpretata la legge (ovvero la Torah)”.

19 Ai ff. 17r-19r. Nell’edizione di questo testo e dei seguenti, sono impiegati i seguenti segni diacritici per la resa del testo manoscritto: aaa1: parola o lettera emendata (con rimando in nota per spiegazione della scelta); ( ) = integrazione congetturale; aaa = rasura del copista; <aaa> = integrazione del copista o sua nota a margine.

20 L’ebraico segue l’edizione moderna del testo masoretico (in particolare, mi baso su Disegni (2009)), perché in questo caso non è direttamente presente nel ms. Roth 32. Qualora invece i testi in ebraico siano presenti nel ms. (è il caso dello Šema‘ Israel, o del piyyuṭ di ibn Gabirol, vd. infra), ne do l’edizione insieme al giudeo-provenzale.

21 Questo termine merita una nota: ulhausses traduce “fulmini” (ebr. beraqim). Nel provenzale medievale sono attestati altri termini per “fulmine”, per esempio lampec o folzer (e varianti). Se però si consulta Lou Trésor dóu Felibrige di Frédéric Mistral (1979), ovvero il dizionario di provenzale moderno, s.v. Uiau, vi è anche la variante ulhau (plurale ulhausses) che significa “fulmine”. Come talvolta accade, il testo giudeo-provenzale attesta termini che sono altrimenti registrati solo per la fase moderna, abbassandone notevolmente la cronologia.

22 Nel manoscritto si legge פְּנְדוּט (pendwṭ), ma correggo in pendit, supponendo un errore di trascrizione (waw anziché yod, comune nei testi ebraici perché le due lettere sono molto simili), per ripristinare il senso: la radice N.Ḥ.M. indica consolazione e pentimento, in questo caso il soggetto è Dio, quindi significa “avere compassione”, ma come detto supra, una radice tende sempre a essere tradotta con lo stesso termine provenzale, in questo caso pendir, anche laddove sarebbe più adeguata la resa con un altro vocabolo.

23Saut du même au même: sono saltati la seconda parte del versetto 19 e la prima parte del 20. בֵּ֥ית אַֽ֜הֲרֹ֗ן בָּֽרְכ֥וּ אֶת־יְהֹוָֽה בֵּ֣ית הַ֖לֵּוִי בָּֽרְכ֣וּ אֶת־יְהֹוָ֑ה.

24 “On Shabbat, the four Psalms 19, 34, 90 and 91 and the three Psalms 33, 92 and 93 were said to frame the so-called ‘Great Hallel’ (Ps 135 and 136), thought to have been chanted when crossing the Red Sea. This whole block is added before the Daily Hallel (Ps 145-150) in a traditional Shabbat morning service as a teaching about the Exodus, creation and the world to come and to prepare fittingly for the Shabbat prayer” (Boeckler, 2015, p. 74).

25 La forma amasament, invece del più classico amasamen in cui non si trascrive la -t finale del suffisso, è un arcaismo grafico tipico dei testi giudeo-provenzali, cf. Aslanov (2001, p. 62) e ss.

26 Si veda per es. la glossa del ms. BAV Vat. ebr. 413, f. 81r a ‘eṣev: malevoler (מליולר), che potrebbe spiegarsi come una traduzione etimologica questa volta sulla radice “corretta”, ovvero ‘aṣav, “essere triste, afflitto”. Il manoscritto in questione conserva un dizionario ebraico anonimo del XIII secolo, che fu oggetto di un’edizione critica di Saenz-Badillos (1987). Questo dizionario di ebraico biblico, come la maggior parte dei commentari grammaticali di area occitanica, si presenta diviso per radici, ognuna delle quali viene analizzata e interpretata etimologicamente, elencando i derivati corradicali e la loro connessione semantica e, di tanto in tanto, ricorrendo alle glosse in lingua romanza. La presenza a testo di glosse provenzali, tra l’altro, costituisce uno degli indizi più importanti per localizzare la redazione di quest’opera nel Midi francese (ma senz’altro al confine con la Catalogna, come appare sottoponendo il testo a un’indagine linguistica più mirata). Le glosse fanno parte dell’edizione del testo ebraico approntata da Saenz-Badillos (1987), ma egli le elenca anche a parte (pp. 46-49), proponendo una prima, spesso ipotetica, interpretazione del loro significato. Si veda anche Ferrer (2002, pp. 41-50), che le considera glosse “giudeo-catalane”. Un mio studio è in corso, ma al momento risulta ancora inedito.

27Blondheim (1925, p. 52). Lo studioso (ivi) ricorda che la resa di minḥah (“offerta sacrificale”) con un termina che significa “dono”, è già presente nella traduzione greca di Aquila, che traduce minḥah con dòron (“dono”).

28Minha è un dono dato da Dio, come un talento o un fatto positivo, mentre minḥah ebraico indica piuttosto il contrario, un dono fatto dall’uomo come frutto del proprio talento. In questo senso hadyia, termine generico per “dono”, è più adatto. Ringrazio la dott.ssa Francesca Gorgoni e il prof. Michael Ebstein per la consulenza sull’arabo.

29 Si veda a questo proposito anche Mayer Modena (1999, p. 94).

30 Nato a Malaga intorno al 1021 e morto a Valencia tra il 1053 e il 1058 (Tamani, 2004, pp. 42-49).

31 Così dice lo stesso Lazar (1970, pp. 581-582) a proposito del Siddur giudeo-provenzale: c’è da fare solo una piccola correzione a quanto dice lo studioso, visto che almeno un piyyuṭ, questo di Šelomoh ibn Gabirol, compare.

32 Ringrazio Michael Ryzhik per la ricca consulenza sulla questione.

33 Si tratta di un gruppo di salmi, preghiere e benedizioni da recitare durante šaḥarit, la preghiera quotidiana del mattino.

34 Così si legge infatti a margine, in corrispondenza dell’inizio del piyyuṭ: “aissi dis om נשמת כל חי en Šabbat e en yom ṭov”.

35 I due testi si trovano in ff. diversi del ms. Il testo ebraico è ai ff. 37r-38r, il giudeo-provenzale ai ff. 38v-39r.

36 Il titolo del piyyuṭ sarebbe: כל ברואי מעלה ומטה (“tutte le creature dell’alto e del basso”), che costituisce il primo verso del testo, ma nel nostro ms. è omesso e il titolo coincide con il secondo verso: יְעִידוּן יַגִּידוּן כֻּלָּם כְּאֶחָד (“testimonieranno, racconteranno insieme”), diversamente abbreviato nell’ebraico (יגידון כלם כאחד) e nel giudeo-provenzale (יעידון יגידון). Per un confronto col testo “standard” del piyyuṭ di ibn Gabirol si veda all’indirizzo: https://web.nli.org.il/sites/nlis/he/song/pages/song.aspx?songid=885#7,135,2927,1678, il sito dell’Università ebraica di Gerusalemme dedicato al piyyuṭ e alla preghiera.

37 Ms. retarairan.

38 Richiamo.

39 La versione standard del piyyuṭ solitamente legge: לכל מבין (“ad ogni intenditore”). Che il testimone da cui derivano i nostri due testi del canto già non presentasse כל (“tutto, ogni”), ci sembra deducibile dal giudeo-provenzale, che traduce l’espressione azavertent, senza accompagnarlo con tot.

40 Versione standard: יַכִּירוּן. si noti tuttavia che la nun finale in questa forma verbale rappresenta una aggiunta eufonica facoltativa, che non comporta alcun mutamento morfosintattico.

41 La versione standard legge: וְאַתָּה הָאֵל הַמֶּלֶךְ הַמְּיֻחָד (“e Tu sei il Dio, il re unico”). Che la variante del ms. Roth 32 si trovasse già nel modello, lo lascia supporre la resa giudeo-provenzale, che è coerente: mon governador sol e azunat traduce precisamente רועי יחיד מיוחד (“mio pastore/governatore solo e unico”).

42 Nel ms. si legge נמצא, lett. “troveremo” oppure “fu trovato”, ma si tratta chiaramente di un errore, anche guardando al giudeo-provenzale che ha la forma corretta (troban), quindi ripristino a testo la forma corretta della versione standard (ימצאו).

43 Nel ms. si legge בנוי (banuy), ma è chiaramente un errore di copia, dovuto alla quasi omografia di מנוי (manuy, “contato”) – בנוי (banuy “costruito”); banuy che oltretutto compare due versi sopra e che probabilmente ha tratto in inganno il copista che lo ha ritrascritto. Il giudeo-provenzale è corretto, infatti traduce nombrat.

44 וים וקדם. Per la spiegazione, ipotetica, su questo verso coi punti cardinali, si veda infra.

45 Richiamo.

46 L’ebraico conclude riportando il verso iniziale, lasciandoci intuire che il testo, cantato, si concludesse con la ripresa a mo’ di ritornello del verso iniziale. Considerando che la nostra versione omette il primo verso, nonché titolo, del componimento, possiamo immaginare che la ripetizione dell’inizio in conclusione servisse a “stare” nella melodia.

47 La creazione è fatta di coppie e di opposti, mentre solo Dio è unicità. Per l’interpretazione del verso, si rimanda al sito (in ebraico): https://web.nli.org.il/sites/nlis/he/song/pages/song.aspx?songid=885#7,135,2927,1678

48 Citazione da Eccl 12:11.

49 Anche qui c’è una allusione al Sefer Yeṣirah (1:13-14; cfr. Kaplan (2016, pp. 117-26), quando parla delle sei direzioni in cui il Signore opera la creazione, ovvero i quattro punti cardinali più l’alto e il basso (cioè il cielo e la terra).

50 Citazione da Es 17:12.

51 Si tratta precisamente di una strofa zagialesca, schema rimico di origine arabo-andalusa e diffuso in tutta la poesia romanza, ebraica e giudeo-romanza.

52Aslanov (2001, p. 51); Baricci (2014, p. 179). Si veda per esempio il Roman d’Esther (Méjean Thiolier – Notz-Grob, 1997, p. 142), in cui Moab (v. 271) rima con soau (“gradevole”, v. 273).

53Zuffrey (1987, p. 122) afferma che questo fenomeno – la mutazione in di l finale quando preceduta da vocale a – è presente nel Canzoniere R, composto ca. tra il 1292 e il 1400 nella Linguadoca occidentale (Tolosa), e che forse sia da intendere come guasconismo. Lo stesso fenomeno (l > ), ma esteso ad ogni posizione della l implosiva (quindi non solo in finale preceduta da a), si trova nel Canzoniere E (p. 180), composto a Montpellier nel XIV sec., ed anche, anche se in maniera asistematica a fianco di altri esiti, nel Canzoniere f (p. 217) scritto nella zona di Arles, nella prima metà XIV sec. Nel caso della lingua del copista del nostro siddur, sembrerebbe quindi verisimile supporre, sulla base di questo tratto e di ulteriori spie linguistiche, una localizzazione nella parte meridionale del dominio d’oc e, forse, nell’area linguadociana.

54Ryzhik (2008, pp. 155-167) e Ryzhik (2013, p. 241) e ss.

55 Lo Šema‘ Israel (“ascolta Israele”) è una delle preghiere ebraiche più importanti, così chiamata dalle prime due parole con cui comincia. È formata da tre brani biblici (Deut. 6:4-9 e 11: 13-20; Num. 15:37-41) in cui si afferma l’unicità di Dio e in cui sono ricordati alcuni degli obblighi principali per un ebreo, tra cui quello di indossare i tefillin (i “filatteri”), dell’esposizione, sullo stipite destro della porta, della mezuzah (lett. “stipite”, astuccio metallico contenente una pergamena coi brani summenzionati del Deuteronomio) e degli ṣiṣit (le frange del tallit, cioè del mantello della preghiera).

56 Colgo l’occasione per ringraziare il professor Michael Ryzhik, oltre che per i preziosissimi consigli, anche per il testo giudeo-italiano dell’edizione Fano (1506), che è qui riportato nella sua trascrizione.

57 Il testo ebraico si trova ai ff. 44v-46v; il giudeo-provenzale ai ff. 43r-47r.

58 Nel ms. è scritto ידכה; la pronuncia è sempre la stessa (yadekhah) ma questa sembra una scrittura “fonetica” occorsa in un momento di distrazione del copista; in questo caso sembrerebbe che qualcuno stia dettando a chi trascrive.

59 Interessante, paradossale caso in cui vediamo all’opera il metodo di tradurre una stessa parola costantemente con il suo alter ego: qui dieu traduce אלהים (’Elohim, “Dio”, se inteso al singolare, ma anche “dei” se inteso come un plurale, cosa che morfologicamente è) che però in questo passo indica gli dei stranieri; in tal senso è un vero plurale, come assicura l’aggettivo seguente, concordato al plurale (anche in provenzale!). Nondimeno, la costanza nel tradurre questo termine ebraico con Dieu (rigorosamente singolare!) ha la meglio sulla correttezza morfosintattica del sintagma e persino sul senso intrinseco del passo.

60 Vi è un saut du même au même di sobre la terra e espunzione, da parte del copista, di: que ğuret Sant e Benezet a vostres pairons a donar a vos. Il segno di espunzione (due puntini sopra la parola) è posto su tutte le parole tranne che su Sant e Benezet, per rispetto al nome di Dio. Da notare le variazioni grafiche che già sono presenti nell’immediata ripetizione dello stesso passaggio: gimel anziché doppia yod per juret, e sant e benezet anziché sant benezet.

61 Blu. Per la spiegazione di questa parola, si veda Ryzhik (2013, p. 247).

62 È comunque una scelta soggettiva del traduttore, perché in altre traduzioni giudeo-italiane la componente ebraica mantenuta è più ampia. Per la questione si veda ancora Ryzhik (2013, pp. 252-253).

63Ryzhik (2013, pp. 255-257) nota a ragione anche una differenza tra i brani biblici, più arcaici e con un lessico più convergente, e le preghiere. Lo studioso spiega il fenomeno attribuendolo a una maggiore antichità delle traduzioni bibliche e a una loro maggiore sacralità, che li rese anche testi più difficilmente modificabili.

64 Lett. “con che cosa si accende”. Si tratta di un brano della Mišnah (Šabbat 2), da leggere durante la preghiera del venerdì sera, in cui si parla dei materiali con cui si può accendere il lume sabbatico.

65Aslanov (2001, p. 79) e ss.

66 Anche gli ebrei spagnoli si dispersero dopo il 1492, ma, a differenza dei francesi, continuarono a parlare ladino fuori da Sefarad. Resta da osservare che comunque, nonostante l’ebraismo medievale di Francia termini precocemente e violentemente, manoscritti francesi precedenti all’espulsione (in ebraico e, seppur minimamente, persino in giudeo-francese) si sono comunque conservati. Dunque, l’evento dell’espulsione in sé non è sufficiente a giustificare la totale assenza di traduzioni continue giudeo-francesi della Bibbia.

67 Che il nostro Siddur fosse impiegato anche in sinagoga lo conferma la presenza di alcune preghiere che possono essere recitate solo con un minyian, ovvero il numero minimo di (dieci) uomini che abbiano raggiunto la maturità religiosa. Questo peraltro dimostra anche che il siddur non era di esclusivo uso femminile, poiché solo gli uomini contano per il minyian (Ryzhik, 2013, p. 233).