Edetania. Estudios y propuestas socioeducativos.

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LA RIFLESSIVITÀ NELLA FORMAZIONE
ALLA PROFESSIONE DOCENTE

 

Reflectiveness in Professional
Teacher Training




Monica Crottia

a Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione. Università di Torino.

Correspondencia: Università di Torino. Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione. Via Verdi, 8. 10124 Turín. Italia.

E-mail: monica.crotti@unicatt.it

 

Fechas de recepción y aceptación: 30 de septiembre de 2016, 26 de noviembre de 2016

Riassunto: Questo saggio presenta una ricostruzione della pratica riflessiva in termini di teoria e metodologia, ed è basato su un’analisi della letteratura scientifica in argomento. La pratica riflessiva è stata a lungo una delle preoccupazioni più rilevanti nella pratica professionale, specialmente nell’ambito della formazione degli insegnanti. Lo scopo di questo contributo è di mostrare che promuovere la riflessività durante la formazione dei docenti e nel loro servizio professionale può avere forti benefici relativamente all’efficacia didattica, perché la riflessività sviluppa la capacità degli insegnanti di considerare la propria pratica e di modificare la loro considerazione sull’insegnamento e sull’apprendimento. La pratica riflessiva promuove anche lo sviluppo dell’identità professionale. Infatti, l’insegnante come professionista riflessivo sa interpretare e reinterpretare la propria esperienza, sviluppando in questo modo la sua identità professionale di docente.

Parole chiave: formazione docente, pratica riflessiva, pratica docente, identità professionale docente.

 

Abstract: This essay presents a reconstruction of reflective practice in terms of theory and methodology, and is based on an analysis of scientific literature in the subject. Reflective practice has long been one of the most important concerns in professional practice, especially in the field of teacher training. The purpose of this contribution is to show that promoting reflexivity during teacher training and their professional service can have great benefits in terms of didactic effectiveness, because reflection develops the ability of teachers to consider their practice and to modify their consideration of teaching and learning. Reflective practice also promotes the development of professional identity. In fact, the teacher as a reflective professional can interpret and reinterpret his own experience, thus developing his professional identity as a teacher.

Keywords: teacher training, Reflective practice, practice teacher, professional professor identity.

1. Introduzione: la riflessività nella società della conoscenza

La professione docente si costruisce in una cornice costellata di cambiamenti e emergenze, agendo su un piano di complessità sia interna che esterna: da un lato, l’area dei bisogni formativi si è rilevato quanto comprenda sia esigenze cognitive, che emozionali, affettive e relazionali (Blandino, 2008: 35), le quali si strutturano individualmente e in gruppo; inoltre, è evidente quanto la quotidiana presa di decisioni avvenga in situazioni e condizioni uniche, manifestandosi in un contesto difficilmente decifrabile e prevedibile (Pultorak, 2010; Jay, Johnson, 2000), che attiva dinamiche processuali circolari tra teoria e pratica, con ricadute sull’esperienza stessa.

La formazione degli insegnanti pensata secondo il criterio dell’acquisizione di un sapere teorico e metodologico generale da applicare in situazione, genera perciò frustrazione e senso d’inadeguatezza (Théorêt, 2005) in quanti sono chiamati, nella proposta di Bruner, non soltanto alla trasmissione del sapere, ma anche alla creazione di cultura (Bruner, 1986: 163).

La “società della conoscenza” (Cresson, 1995; Alberici, 2002) richiede, infatti, di aggiungere a un sapere prettamente teorico o tecnico, riferito a situazioni anticipabili perché definite da un andamento di causalità lineare, un sapere prassico, capace di analizzare e comprendere le esperienze singolari che si stanno vivendo e di decidere quali azioni mettere in atto (Mortari, 2003). Il contesto in cui il docente opera quotidianamente è in continua trasformazione e contiene culture e condizioni esistenziali eterogenee, richiedendo progettazioni calibrate e attente alla persona che non riguardano soltanto l’ambito delle conoscenze, ma l’acquisizione di competenze in grado di aumentare la consapevolezza degli apprendimenti.

Inoltre, per definire l’“essere un insegnante”, possiamo far ricorso a competenze professionali formalmente riconosciute, ma non dobbiamo dimenticare che si tratta di una professione socialmente legittimata attraverso l’interazione con altri docenti, con i genitori e con gli studenti e altre persone coinvolte nel processo educativo (Stîngu, 2012: 618).

Il docente è interpellato, quindi, non unicamente sul piano disciplinare, aumenta l’esigenza di agire con nuovi strumenti e metodologie e di rispondere a emergenti esigenze educative, le quali pongono questioni anche al personale sistema dei valori e al pensiero attorno al proprio essere docente. Tali cambiamenti, infatti, modificano la progettazione didattica e l’agire stesso dell’insegnante: da colui che propone modelli didattici prestabiliti, a professionista che osserva l’ambiente d’apprendimento e avanza strategie atte al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Un approccio che fonda la didattica sulla relazione, sulla consapevolezza della propria filosofia educativa e su un sapere pedagogico frutto di continua ricorsività pratica-teoria-pratica (Altet, 2003). La pratica dell’insegnamento, infatti, non consiste in un insieme di atti osservabili come azioni-reazioni, ma è il reticolo di relazioni entro le quali avvengono scelte e decisioni assunte anche alla luce delle condotte, linguaggi, regole, obiettivi, strategie proprie del “sapere insegnare” elaborato dalla comunità professionale.

La riflessività acquista perciò un ruolo chiave, seppure non sia univoca la sua definizione (Fendler, 2003; Russell, 2005; Nuzzaci, 2011) e nemmeno la sua applicazione (Black, Plowright, 2010; Parsons, Stephenson, 2005). Questo aspetto rappresenta per alcuni autori una delle sue principali criticità (Collin, Karsenti, Komisc, 2013).

Sul piano sociologico, Scott Lasch, nell’esaminare l’evoluzione della modernità, concorda con Beck e Giddens nel definirla “riflessiva” (Beck, Giddens, Lasch, 1999), ossia l’esito non di una rottura con il suo pensiero tradizionale, ma l’evoluzione e la conseguenza delle sue proposte: l’epoca post-moderna, o della modernità avanzata, mostra il superamento del pensiero consequenziale e la perdita di fiducia nel progresso scientifico al fine del miglioramento continuo della vita umana; inoltre, l’individualizzazione del soggetto e la globalizzazione in termini di superamento di confini e di spazi sempre più ampi di relazione e comunicazione, ha ampliato il bisogno di nuove identificazioni e messo in discussione (revisione) il concetto stesso di appartenenza. Lasch distingue, quindi, tra una “riflessività strutturale”, che interessa le regole e le risorse della struttura in cui il soggetto è inserito, e una auto-riflessività, in cui “l’agente riflette su se stesso” (Ivi: 167). La riflessività è, quindi, un processo di messa in discussione di certezze sia esterne che interne al soggetto, non soltanto in ambito cognitivo.

La necessità di attuare un pensiero riflessivo è questione recente per quanto concerne le professioni educative e la formazione degli insegnanti (Stîngu, 2012), evidenziando la necessità nel processo d’insegnamento-apprendimento dell’interazione tra saperi disciplinari, pedagogici, didattici e socio-culturali, accanto alla consapevolezza che la preparazione dei docenti è un fattore strategico per affrontare le sfide del nuovo millennio1. Nella società della conoscenza è, infatti, riconosciuta una relazione circolare nel processo d’insegnamento tra la progettazione didattica e la formazione dei docenti, sia iniziale che in servizio (Cerri, 2002; Nuzzaci, 2009).

L’approccio riflessivo, ponendo a tema l’identità professionale del docente, pur da piani teoretici e pragmatici differenti, si fonda sulla convinzione che la riflessività sia un elemento critico fondamentale, sia per la formazione che per la pratica dei docenti (Calderhead, Gates, 1993; Black, Plowright, 2010; Parsons, Stephenson, 2005).

2. L’insegnante riflessivo

All’inizio del xx secolo, John Dewey introdusse il concetto di riflessione in campo pedagogico e, da allora, il suo lavoro ha rappresentato un punto fermo per gli studi successivi sulla professionalità docente (Smyth, 1992: 268), distinguendo tra routine action, espressione con cui descrive un’azione compiuta in un contesto sociale e guidata dalla tradizione, e reflective action, ossia “il fare che si sviluppa dall’attiva, costante e diligente considerazione delle credenze e conoscenze personali, alla luce delle prove che le sorreggono e delle conclusioni cui tendono” (Dewey, 1961: 68). Nel volume How we think, Dewey evidenzia quanto il pensiero riflessivo, differenziandosi dalle altre operazioni mentali che noi leghiamo al concetto di “pensiero”, nasce da una situazione di “disagio cognitivo”, di dubbio, perplessità, esitazione, per evolvere in un atto d’indagine e di ricerca del materiale che possa superare l’incertezza iniziale (Ivi: 71).

Riflettere significa, quindi, esaminare l’esperienza e le convinzioni personali che rendono ragione delle decisioni prese, cercando di ricostruire il processo del pensiero che determina conseguenze nella pratica. Tale processo, vede il pensiero e la pratica collocarsi in un flusso ricorsivo circolare.

Una linea di lettura ripresa da Donald Schön negli studi sull’insegnante come professionista riflessivo. La maggior parte della formazione docente, infatti, sarebbe il risultato dell’azione quotidiana volta a gestire i problemi scolastici e della riflessione continua dell’insegnante, distinguendo tra una conoscenza esperienziale, la quale si sviluppa mediante l’esperienza professionale, e una razionalità tecnica, che deriva da fonti esterne alla conoscenza individuale.

La riflessività è, quindi, essenziale per gli insegnanti che vogliano comprendere la natura complessa della classe e che intendano risolvere problemi legati alla pratica d’insegnamento, partendo proprio dal mettere in discussione il processo di conoscenza e il ruolo dell’esperienza personale (Zeichner, 1996).

L’approccio fenomenologico alla conoscenza ha, infatti, sostenuto il valore della riflessività mediante l’attenzione riconosciuta alla soggettività e ai significati che ognuno attribuisce alle proprie esperienze nella costruzione del sapere. Il metodo fenomenologico è scientificamente fondato sul ritorno alle “cose stesse”, ossia sul percorso che consente di risalire dai discorsi e dalle teorie pre-formulate all’essenza del reale (Husserl, 2002: 43), che è oltre il contingente e rappresenta la qualità unica e singolare di un fenomeno. Nella ricerca dell’essenza dell’oggetto, il ricercatore non agisce mai come presenza neutra, perché il suo pensiero è frutto di un’esperienza soggettiva. Inoltre, il pensiero nasce in un ambiente culturale, che agisce da lente intermediante (e, a volte, deformante), nei confronti dell’oggetto. Per questo motivo, “il metodo fenomenologico si muove completamente in atti della riflessione” (Ibidem: 184). Pensare e riflettere sono entrambi atti della mente (cogitationes), ma il pensiero, nel primo caso, si riferisce a qualcosa di estraneo a sé, mentre nella riflessione il pensiero pensa se stesso. Sintetizzando, “il soggetto che riflette è un io che si dirige sui suoi stessi vissuti e si ascolta pensare mentre pensa. Solo attraverso l’atto della riflessione la mente può diventare consapevole della qualità degli atti cognitivi compiuti e dunque è un atto cognitivo della stessa qualità dell’oggetto cui si dirige” (Mortari, 2003: 154).

Luigina Mortari, con un approccio fenomenologico, individua due livelli di riflessione: una reflective action, che è attività mentale con la quale il soggetto esamina l’azione mentre la compie o quando è ormai terminata; un pensare i pensieri, che interessa le attività mentali attivate per comprendere il pensiero, ossia una riflessione sul modo di pensare (Ibidem).

2.1 Pensare l’azione

In merito al pensare ciò che si fa, anche nella definizione di professionista riflessivo2 di Schön si descrive la conoscenza acquisita dall’esperienza, operando una distinzione tra la razionalità tecnica e la conoscenza della pratica (Dimovaa, Loughranb, 2009: 208) e articolando la conoscenza in “reflection-on-action” and “reflection-in-action”. La prima, richiama l’idea di Dewey di un atto deliberativo volto a ripensare le proprie azioni, mentre la riflessione durante l’azione è un learning by doing, fondato sulla consapevolezza che, non solo “possiamo riflettere su ciò che facciamo, ma anche riflettere su ciò che facciamo mentre lo facciamo” (Schön, 1993: 54).

Inoltre, la complessità della classe spesso richiede da parte del docente decisioni rapide, alle quali occorre, tuttavia, associare un pensiero meta-riflessivo, una sorta di “reflection-for-action”, che non riguarda soltanto casi difficili o incidenti improvvisi, ma “situazioni routinarie che sono percepite (dal docente) come problematiche” (Eraut, 1995: 13). È una forma di “riflessione critica” che si fonda sull’idea che il docente deve comprendere sia la sua esperienza, collocandola nel contesto sociale in cui avviene, sia usare la conoscenza acquisita per la pratica successiva.

Concordo con Terence McLaughlin quando, accompagnando la formazione dei docenti, avverte il rischio che “l’insegnante riflessivo” possa divenire uno slogan o un principio generale riconosciuto dai docenti, senza un reale intendimento sul suo significato, ossia su ciò che “sottostà l’essere un insegnante riflessivo” (1999). Nella lettura di McLaughlin, la riflessione esplicita e sistematica, che si fonda su una ragione pratica o una “technical rationality” (Schön, 1993), si associa alla nozione aristotelica di techne, che è “un’attività di produzione (poiesis), finalizzata a un risultato pre-specificato e di lunga durata (un prodotto o stato di cose), che costituisce il suo scopo (telos)” (McLaughlin, 1999: 12). Un insegnante possiede conoscenze tecniche e competenze che applica per risolvere problemi nell’attività pratica. Ad essa, tuttavia, fa il pari una riflessione intuitiva o tacita, che si riferisce alla nozione aristotelica di praxis, che “comporta l’impegno delle persone in attività con altri e che non è destinata a realizzare obiettivi esterni per le persone coinvolte, ma piuttosto un’eccellente forma utile di vita” (1999: 14-15). La praxis richiede una conoscenza personale ed esperienziale. Mentre la prima forma di riflessione s’interessa della natura della conoscenza, la seconda si riferisce allo scopo e agli obiettivi del sapere. Essa intercetta alla base il pensiero sull’essere docente e sostanzia la ricerca di progettazioni didattiche attente allo specifico delle persone in apprendimento.

La riflessività è, quindi, “una caratteristica di base del pensiero dell’insegnante”, ossia “un carattere permanente della sua biografia” (Damiano, 2004: 314).

Anche Elliot (1993) distingue due tipi di riflessione: la prima ha una interesse tecnico ed è impersonale e non critica, inoltre, si sviluppa da un pensiero standardizzato e strumentale; mentre la seconda ha interesse pratico e riguarda la persona, promuovendo un pensiero critico e anche un rimando ai valori. Infatti, “la differenza tra un problema teorico e un problema pratico sta nel fatto che non si può sempre definire la natura del secondo”, che unicamente “può essere percepito: si avverte che c’è qualcosa che ostacola il raggiungimento dell’obiettivo, ma non sempre si riesce a cogliere la natura dell’ostacolo” (Ivi: 17).

A queste due forme di riflessione, Van Manen aggiunge un’anticipatory reflection (1991: 101), con la quale spiega i processi mentali interessati all’azione possibile, ponendo come oggetto di analisi la proiezione e l’anticipazione di ciò che potrebbe accadere o che si auspica avvenga. È il percorso mentale attivato nell’immaginare situazioni in prospettiva, analizzando ipotesi di azione in momenti professionali problematici, vagliando approcci di gestione e soluzione della realtà critica.

Nel tentativo di compiere una sintesi dei possibili livelli ai quali gli insegnanti possono svolgere la riflessione in ambito scolastico, Larrivee (2008), sulla base di un’ampia revisione della letteratura, ne identifica quattro: a) pre-reflection, ossia il momento “zero” della riflessione, in cui gli insegnanti reagiscono a situazioni d’aula in maniera automatica, senza considerare consapevolmente delle alternative; b) surface reflection, nella quale le riflessioni degli insegnanti riguardano le strategie utilizzate per raggiungere gli obiettivi prefissati; c) pedagogical reflection, con la quale gli insegnanti s’interrogano sulle teorie e gli approcci educativi utilizzati, cercando di comprendere i legami tra i principi teorici e la pratica; d) critical reflection, è il momento della riflessione che interessa le implicazioni morali ed etiche e le conseguenze della pratica sul piano socio-politico più ampio. L’evoluzione della riflessione negli insegnanti non avviene in maniera sequenziale tra i livelli, anzi, gli insegnanti possono riflettere anche contemporaneamente su più aspetti della loro attività professionale.

La riflessività è legata, inoltre, come abbiamo anticipato, alla significatività, poiché il significato che la persona attribuisce al proprio apprendimento è il risultato dell’interpretazione dell’esperienza, che genera nuova conoscenza grazie alla condivisione delle competenze possedute (Mezirow, 2003). Secondo l’approccio psicosociale costruttivista, infatti, i gruppi di lavoro possono rappresentare delle vere e proprie “comunità di pratiche”, ossia “gruppi di persone che condividono lo stesso tema, problemi simili o la stessa passione verso un particolare aspetto e che approfondiscono le loro conoscenze e la loro esperienza all’interno di tale spazio definito” (Wenger, McDermott, Snyder, 2002: 4-5). La costituzione di comunità di pratiche appartenenti allo stesso contesto professionale, consente di agire la riflessività in maniera condivisa, mettendo insieme le esperienze, la storia, la cultura e il linguaggio comune per costruire soluzioni compartecipate in situazioni problematiche (Albanese, Businaro, Fiorilli, Zorzi, 2010).

La formazione degli insegnanti in contesti collaborativi volti a promuovere pratiche di apprendimento che riconoscano e esaltino la diversità e la ricchezza delle conoscenze, si presenta aspetto favorevole anche per innovare la realtà scolastica (Meirink, Imants, Meijer, Verloop, 2010).

2.2 Pensare i pensieri

L’insegnamento richiede un sapere articolato: la conoscenza teorica degli strumenti, dei modelli, delle strategie dell’insegnare è necessaria, ma non sufficiente al fine dello svolgimento della professione, che richiede di rapportarsi, da un lato, con l’azione educativa praticata in maniera riflessiva, d’altro canto, di aprirsi alla possibilità di interrogare la vita della mente (Mortari, 2003: 35).

Secondo Maura Striano, infatti, la pratica riflessiva può assumere tre funzioni: strumentale, deliberativa e trasformativa della pratica (Striano, 2001: 2-5).

L’ultimo aspetto richiama il secondo livello di riflessione secondo Mortari, ossia pensare i pensieri che significa attivare una relazione di attenzione e cura della propria vita cognitiva; è una riflessione meta-cognitiva3 con lo scopo di rigenerare il pensiero.

Questa necessità della professionalità docente, porta Philippe Perrenoud (2001) ad esortare, nella complessità delle pratiche pedagogiche, a distinguere tra i vocaboli francesi réfléchi e réflexif, evidenziando che un professionista réflexif è saggio, ponderato, lucido (réfléchi), ma è anche capace di oggettivare la sua riflessione. Attraverso la possibilità di un auto-monitoraggio metacognitivo (“l’abstraction réfléchissante” di Piaget), un pensare l’insegnamento, si attua una riflessione sul senso del proprio agire professionale (cultured reflection) e il processo riflessivo rivolto al proprio pensiero consente di pre-vedersi, ossia di comprendere le letture del mondo che il soggetto ha interiorizzato dall’intreccio tra la sua predisposizione personale, l’ambiente di vita e la tradizione storico-culturale in cui è inserito.

Il professionista riflessivo riflette sul suo pensiero in maniera critica, ossia senza la tentazione di auto-assolversi dagli errori, e costruttiva, con il desiderio di apprendere dall’esperienza e dal processo riflessivo, per formarsi un sapere che possa essere re-investito nelle situazioni successive.

La formazione degli insegnanti dovrebbe consentire di acquisire la riflessività come postura professionale permanente, con il fine di favorire l’apprendimento negli studenti, piuttosto che operare per ridurre il timore di perdere il controllo della classe.

La riflessività è una pratica, ma anche un’etica dell’insegnamento.

Nel contesto del pensare il pensiero, l’attenzione non è rivolta all’agire, quanto alle teorie che indirizzano l’azione, spesso in maniera tacita. Infatti, il soggetto non ha completa consapevolezza degli schemi concettuali che hanno determinato la presa di decisione, perché nella maggior parte dei casi agisce in maniera scontata e routinaria. Dewey (1961: 97) introdusse, analizzando l’attitudine auspicabile all’apertura mentale, il concetto di “pregiudizi” per segnalare le idee assimilate senza analisi critica, cui facciamo ricorso nell’esperienza e nella formulazione di giudizi. Pensare i pensieri significa ricorrere a una riflessione meta-cognitiva in grado di osservare le teorie, convinzioni, pregiudizi che sostanziano l’azione. Questo tipo di riflessione, soprattutto per le professionalità di cura, comporta una profonda difficoltà e richiede uno sforzo di messa in discussione del certo per affrontare l’imprevedibilità, divenendo un esercizio psicologicamente faticoso e politicamente impegnativo (Mortari, 2003: 43).

Se il pre-giudizio, cui faceva riferimento Dewey nei suoi studi sul pensiero, è necessario all’adattamento del soggetto nei confronti della realtà che abita, tuttavia, comprendere il processo di apprendimento e di pensiero non è sufficiente, è solo il primo passaggio per incontrare fenomenologicamente la realtà delle cose.

In ambiente formativo, infatti, il meccanismo dell’apprendimento non rende ragione dell’apprendere ad apprendere, che supera il passaggio e l’acquisizione di nozioni, per divenire ricerca ricorsiva tra teoria e pratica. Il percorso meta-riflessivo può essere agevolato da alcuni strumenti e pratiche formative, come la narrazione, la quale, attraverso una bilocazione cognitiva (Demetrio, 1998), permette al soggetto di oggettivare il suo pensiero per indagarne i meccanismi e i significati. La forma scritta, in particolare, consente di definire la “reticolarità” del processo, ordinando secondo una trama le tessiture del pensiero. L’uso della metafora (Lakoff, Johnson 2004) consente, poi, di avvicinarsi all’essenziale delle cose traslando l’universo semantico (Martínez, 2016); è uno scostamento del pensiero, un salto cognitivo, che permette di osservare in maniera imprevista ciò che il pregiudizio ha classificato in anticipo.

L’azione riflessiva di secondo livello (pensare i pensieri), quindi, è una ricostruzione ermeneutica e narrativa che, già nel suo definirsi, esprime l’impossibilità di una oggettività. Nella formazione dei docenti, il processo di narrazione esteriorizza l’esperienza dell’insegnante e consente un’analisi dell’expertise che costruisce significati alla luce di un processo interpretativo volto alla decodifica. Il racconto non esprime soltanto il ricordo, nel caso della rilettura professionale della pratica, genera ipotesi interpretative e esplicita teorie (sapere tacito, thinking tacit), alla ricerca di un sé professionale (Fabbri, 2007a).

Altri strumenti sono stati pensati e proposti per promuovere la riflessione nella formazione dei docenti (Gelfuso & Dennis, 2014), come i collage e i video. Inoltre, le innovazioni in campo tecnologico, con il passaggio all’uso del digitale, hanno permesso d’implementare le potenzialità di alcune tecniche in campo educativo (Bonaiuti, 2010), compresa la formazione iniziale dei docenti (Cannings, Talley, Redmond, Georgi, 2002; Lin, 2005; Llama, Kurz, Savenye, 2003). Un esempio è la video annotazione (Preston et al., 2005), che consente d’inserire commenti testuali sincronizzati alle immagini. Soprattutto nei paesi anglosassoni, troviamo ricerche atte a sostenere le ricadute positive in termini di facilitazione del processo di riflessione e di autoanalisi degli insegnanti in formazione (Rich, Hannafin, 2009), oltre che sul piano delle competenze comunicative e didattiche, evidenziando così le discrepanze tra la progettualità e la pratica scolastica (Bryan, Recesso, 2006).

Si è rivelato un metodo utile alla meta-riflessione anche la documentazione e la riflessione sull’esperienza grazie alla narrazione scritta di un diario, sviluppando “diverse abilità: di osservazione, di documentazione, di riflessione. […] la scrittura avente per oggetto la propria esperienza consente la ritenzione, cioè rende disponibile un materiale esperienziale sul quale ritornare riflessivamente per guadagnare consapevolezza dei propri vissuti e delle esperienze mentali che li hanno accompagnati” (Mortari, 2003: 90).

Hatton e Smith (1995), analizzando i testi scritti da insegnanti in formazione, hanno distinto quelli descrittivi, in cui si lascia spazio alla presentazione dei fatti, da quelli frutto di una riflessività descrittiva, ossia il tentativo di giustificare, con stile narrativo, i propri atti. Gli scritti centrati su una riflessività dialogica presentano, invece, il risultato di un dialogo interiore in cui l’insegnante cerca di esplorare la situazione e di formulare ipotesi di giudizio e d’intervento. L’ultimo paradigma, è quello delle narrazioni focalizzate su una riflessività critica, che allarga la lettura degli eventi al contesto storico e socio-politico.

L’insegnamento come processo riflessivo richiede ai docenti di mettere in discussione le proprie strategie, metodologie e approcci teorici, oltre che i pregiudizi professionali, le convinzioni e i punti di vista, attuando un circolo virtuoso di controllo, valutazione e sviluppo della propria esperienza (Pollard, 2014). Il professionista riflessivo, infatti, riesamina costantemente obiettivi, pratiche e saperi, sia individualmente che all’interno della comunità professionale (Fabbri, 2007b; Fabbri, Striano, Melacarne, 2008), acquisendo un habitus permanente che consente l’auto-regolazione e l’apprendimento della professionalità.

3. Promuovere la riflessività nella formazione dei docenti

McIntyre (1993) sostiene che la riflessività rappresenta un aspetto essenziale della formazione professionale dei docenti, ma evidenzia maggiore efficacia negli insegnanti già in servizio, perché in possesso di repertori di esperienza superiori a quelli dei novizi (Freeze, 1999). Anche la conoscenza tacita utilizzata per gestire le problematiche di classe è superiore rispetto ai colleghi neo-assunti, i quali fanno ricorso a fonti esterne di conoscenza e “quasi ogni passo vacillante” è pianificato e definito in maniera consapevole (ivi: 43).

Quindi, secondo McIntyre, gli insegnanti all’inizio della professione riflettono sulla pratica da sviluppare, piuttosto che sulla ridotta esperienza, tendendo a una riflessione solitaria, mentre gli insegnanti con più anni di servizio privilegiano la riflessione condivisa con i colleghi. Tuttavia, come rileva Mezirow (2003), la conoscenza della pratica può divenire professionalità consapevole soltanto se reinterpretata e trasformata in apprendimento intenzionale.

Come può strutturarsi, quindi, la formazione iniziale degli insegnanti per promuovere la riflessività?

Secondo Zeichner (1996), possiamo osservare quattro distinti paradigmi nella preparazione dei futuri docenti: il primo si focalizza sullo sviluppo di abilità didattiche specifiche e il suo approccio è comportamentista; il secondo, si appoggia al concetto fenomenologico di Bildung o di formazione, evidenziando l’orientamento alla crescita e al progresso interiore, in un’opera di ricerca e costruzione dell’originaria identità personale; il terzo paradigma rimanda alla formazione degli insegnanti come apprendistato; mentre il quarto modello vede come priorità l’attività di ricerca e l’attenzione al contesto in cui l’insegnamento si esplica. La formazione dei docenti di stampo comportamentista e quella legata al modello tradizionale dell’apprendistato si fondano sulla necessaria acquisizione di competenze rigidamente definite e su un sapere tecnico legato alla professione. La riflessività ha, invece, un ruolo centrale nella formazione all’insegnamento in paradigmi che vedono un coinvolgimento attivo da parte dei docenti, con funzione “emancipante”, in quanto favorisce un’etica della responsabilità (Baldassare, 2009: 16).

Come anticipato, infatti, la riflessività non è soltanto una maniera di pensare i problemi educativi per giungere a scelte razionali, ma anche un’assunzione di responsabilità legata alle decisioni prese.

Serafini (2002), per prima cosa, definisce un insegnante riflessivo come una persona che coscientemente, sistematicamente e deliberatamente struttura e ristruttura le sue pratiche professionali in base alle conseguenze delle sue azioni, dei principi democratici, delle credenze e valori, delle esperienze vissute nella dinamica d’insegnamento-apprendimento (Ivi: 4). Quindi, per promuovere una pratica riflessiva esorta a tenere in considerazione quattro aspetti: il tempo, la distanza, il dialogo e la visione. Vorrei soffermarmi sugli ultimi due elementi, per evidenziare l’esigenza della relazione con i colleghi e con la comunità scolastica, in termini di supporto alla riflessività e per riprendere il valore della visione come pensiero e desiderio legato alla classe e all’essere docente. La sfida verso una formazione professionalizzante chiede, infatti, d’individuare “dispositivi che, da un lato, attivino un atteggiamento di ricerca e, dall’altro, sviluppino un’identità, ad un tempo personale e professionale” (Rossi, Magnoler, Scagnetti: 547).

Quindi, nei percorsi formativi si dovrebbero promuovere, da un lato, processi atti a favorire la messa in discussione e la riflessione, per agevolare la progettazione del sé professionale, d’altro canto, si dovrebbero attivare situazioni di ricerca collaborativa tra pari, esperti e docenti, con il fine di raggiungere nuove conoscenze condivise (Ibidem). È l’idea di un “sapere della pratica” che integra i saperi per e nella pratica, all’interno di una figura professionale dell’insegnante come ricercatore e costruttore di cultura sull’educazione: “I saperi di cui gli insegnanti hanno bisogno vengono elaborati quando considerano le loro classi e le loro scuole come dei luoghi propizi a un’investigazione deliberata e sistematica, e nello stesso tempo quando considerano il sapere prodotto da altri come risorsa valida su cui costruire indagini e interpretazioni” (Hensler, 2004: 191).

Per questo motivo, nella formazione dei docenti si dovrebbe agire, sia nella fase iniziale che in servizio, nel passaggio azione-teoria-azione (Altet, 2003), introducendo un lavoro sulla riflessione per promuovere riflessività. Infatti, nella dinamica riflessiva, “la pratica – intesa come capacità di mettere in azione nell’esperienza specifica i saperi taciti dei soggetti e delle organizzazioni – illumina, anzi crea, la teoria intesa come macro-scenario della scoperta, delle nuove domande che nascono, appunto, da quella pratica riflessiva” (Alberici, 2005: I). È una relazione a spirale tra sapere e azione che genera apprendimenti significativi, fonte di rinnovata capacità di riflessione e di cambiamento.

Secondo Perrenoud (2001) la “pratica riflessiva” è in stretta relazione con la riflessività, perché parte dall’identità professionale come atteggiamento permanente a interrogarsi sulle esperienze acquisite, distanziandosi dalla pratica immediata, rifacendosi alla teoria nella formalizzazione di un “sapere della pratica”.

Nella formazione iniziale esiste la medesima percezione dei docenti già in servizio in merito al valore della riflessione, ma varia il suo uso e impatto (Williams, Grudnoff, 2011: 285-286). Inoltre, si rileva che è necessario un periodo di tempo, di circa un anno, perché gli insegnanti novizi passino dall’utilizzare la riflessione per descrivere le prestazioni professionali, al vedere la riflessione come strumento per modificare la pratica d’insegnamento (Ivi: 287).

Nel periodo di formazione che intercorre prima dell’entrata in servizio, gli insegnanti sviluppano un’identità professionale che nasce dall’esperienza personale di studenti, dalle credenze e dalle convinzioni su chi sia un buon insegnante e quali siano le sue competenze (Flores, Day, 2006: 223). La riflessività, in questo caso, aiuta a raffinare questa “identità primigenia” e ad avere una comprensione maggiore del lavoro d’insegnante, accompagnando il processo che coinvolge le esperienze educative degli studi formali universitari, le esperienze personali e l’inizio del lavoro nelle scuole attraverso stage e tirocinio (Geijsel, Meijers, 2005; Korthagen, Vasalos, 2005). Un elemento che interessa il primo anno di servizio, secondo Fischer (2002), è anche la triplice negoziazione con colleghi, dirigenza scolastica e studenti.

Un approccio strutturato per favorire la riflessione, adatto a fornire un supporto immediato per insegnanti esperti, rendendoli più consapevoli e in grado d’interrogarsi attivamente sulla pratica didattica, ma anche utile per la formazione iniziale perché introduce un processo di riflessione critica, lo ritroviamo nel modello di Smyth (1989) a quattro passaggi: a) Descrizione, ossia una spiegazione dettagliata del problema o della situazione; b) Informazione, nella quale si esamina la realtà da più prospettive, chiedendosi quale possa essere il suo significato; c) il confronto, nel quale si ricercano i collegamenti tra la pratica professionale e la conoscenza e comprensione dell’ambiente sociale, economico e politico nel quale si sviluppa l’insegnamento; d) la ricostruzione, invece, risponde alla domanda “Come avrei potuto fare diversamente?”. L’ultimo punto, consente di valutare le possibili alternative.

Nel caso di docenti in servizio è possibile far ricorso a situazioni reali d’insegnamento e l’approccio, come anticipato, è trasformativo della pratica (Mezirow, 2003), con la creazione di un sapere prassico, mentre in fase iniziale si opera sull’identità primigenia.

Nel passaggio iniziale, quello descrittivo, si dovrebbe intervenire anche sugli schemi conoscitivi dei docenti, ampliandoli a ipotizzare soluzioni che passino dall’approccio problem solving ad un tentativo di problem posing. La riflessione sull’agito, infatti, consente di ammettere quanto il lavoro educativo sia spesso pensato in chiave di risoluzione di problemi, senza l’osservazione e la comprensione del bisogno reale. La lettura attenta della questione consente di elaborare strategie didattico-educative innovative e personalizzate.

Riprendendo Montalbetti, infatti, l’approccio riflessivo pone “in discussione la distinzione tra fini e mezzi su cui poggiano l’idea di expertise come sapere neutrale e la separazione tra pensiero e azione, che rende la conoscenza indipendente dalle condizioni spazio - temporali” (2005: 50), così da rilanciare un’idea di conoscenza viva e attivamente costruita con la riflessione sulle soluzioni attuate in ambienti sempre meno prevedibili.

La riflessività agisce poi su “L’essere docente”, ossia la “visione” anticipata da Serafini. Già Dewey (1933: 32) aveva evidenziato la necessità di tre pre-requisiti affinché la persona sia riflessiva: l’apertura mentale, la cordialità e la responsabilità. L’ultimo aspetto è ripreso sul piano morale, ossia “essere intellettualmente responsabile significa considerare le conseguenze di un passo progettato [e] essere disposti ad applicare le conseguenze quando seguono ragionevolmente una posizione già presa”. Gli insegnanti responsabili si chiedono il motivo di ciò che stanno facendo e considerano sempre le implicazioni delle loro azioni sulla vita di classe e anche sul contesto sociale più ampio; essi si ritengono responsabili non solo della formazione degli studenti, ma anche delle implicazioni per la società nel suo complesso.

La formazione degli insegnanti deve perciò essere progettata considerando il ruolo attivo dei docenti, che sono chiamati a riflettere sul proprio agire e a riflettere sul proprio pensiero, proponendo anche di sperimentare in classe quanto appreso in aula (di formazione).

Nell’approccio riflessivo alla formazione si approda alla conoscenza attraverso un percorso interrogativo su se stessi e sul proprio agire professionale, accanto a un interrogarsi sul processo di apprendimento in maniera metacognitiva.

In sintesi, la riflessività diventa “occasione per mettere in discussione la natura della professionalità, la maniera in cui viene svolta e le modalità di apprendimento delle competenze diretta a raggiungere dimensioni profonde della cultura professionale (strutture, valori, pensieri, credenze)” (Nuzzaci, 2011: 10-11), e consente di esprimere una maniera di essere professionisti dell’educazione che si fonda sul reciproco riconoscimento di soggetti in apprendimento.

Per far ciò, la sfida della “società della conoscenza”, è anche volta ad armonizzare e coordinare i vari passaggi della formazione degli insegnanti, da quella iniziale allo sviluppo professionale in servizio, pensando un ulteriore sostegno a inizio carriera (induction programmes), che avvengano in stretta collaborazione tra l’insegnante neo-assunto in servizio, l’istituzione scolastica e quella che ha formato il docente all’insegnamento (Commissione Europea, 2010).

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1 Cfr. Commissione Europea (2010) Europa 2020. A strategyfor smart, sustainable and inclusive growth. Bruxelles; COMMISSIONE EUROPEA (2005) Common european principles for teacher competences and qualifications. Bruxelles; COMMISSIONE EUROPEA (2012) Supporting the teaching professions for better learning outcomes. Strasburgo; EURYDICE (2013) Key data on teachers and school leaders in Europe. Bruxelles; EURYDICE (2012) Cifre chiave per l’istruzione. Bruxelles; EURYDICE (2004) Gli insegnanti europei: profili, tendenze e sfide. Sesto Fiorentino, ABC tipografia.

2 “Quando qualcuno riflette nel corso dell’azione, diventa un ricercatore operante nel contesto della pratica. Non dipende dalle categorie consolidate della teoria e della tecnica, ma costruisce una nuova teoria del caso unico. La sua indagine non è limitata a una decisione sui mezzi dipendente da un preliminare consenso sui fini. Egli non tiene separati i fini dai mezzi, ma li definisce in modo interattivo, mentre struttura una situazione problematica. Non separa il pensiero dall’azione, ragionando sul problema fino a raggiungere una decisione che successivamente dovrà trasformare in azione. poiché la sua sperimentazione rappresenta una sorta di azione, l’implementazione è costruita nell’ambito dell’indagine. Così la riflessione nel corso dell’azione può procedere, anche in situazioni caratterizzate da incertezza o unicità” (Schon, D.A. (1999) Il Professionista riflessivo: per una nuova epistemologia della practica. Roma, Dedalo: 94).

3 Il concetto di meta-cognizione appare negli studi delle scienze umane a partire dagli anni Settanta del secolo scorso (Flavell, J. H. (1976) “Metacognitive aspects of problem solving” in Resnick, L.B. (Ed.), The nature of intelligence. Hillsdale, NJ, Lawrence Erlbaum: 231-235) ed è utilizzato per definire i processi cognitivi connessi alla teoria della mente e agli studi sulla memoria. Il termine meta-cognizione è ripreso in duplice accezione: per spiegare il funzionamento cognitivo individuale o per lo studio dei meccanismi connessi processi cognitivi generali.