Edetania. Estudios y propuestas socioeducativos.

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IL DOCENTE COME EDUCATORE:
UN CONTRIBUTO FONDAMENTALE ALLA QUALITÀ DELLA SCUOLA

 

The Teacher as Educator:
A Fundamental Contribution to School Quality




Giuseppe Maria

a Facoltà di Scienze della Formazione. Dipartimento di Pedagogia. Università Cattolica del Sacro Cuore.

Correspondencia: Università Cattolica del Sacro Cuore. Facoltà di Scienze della Formazione. Dipartimento di Pedagogia. Largo Agostino Gemelli, 1. 20123 Milán. Italia.

E-mail: giuseppe.mari@unicatt.it

 

Fechas de recepción y aceptación: 28 de febrero de 2017, 30 de abril de 2017

Riassunto: Nel quadro della qualità scolastica, occorre prendere in considerazione anche la funzione educativa della scuola, oggi più che mai attuale a causa del fenomeno del disagio e della devianza. Educare significa guidare all’esercizio della libertà come capacità di agire eticamente bene. L’intervento mostra l’essenzialità di questo impegno che peraltro viene comunemente riconosciuto nei documenti normativi. L’apprendimento di conoscenze e competenze costituisce un’opportunità in tal senso se viene svolto in chiave non solamente né prevalentemente tecnico-funzionale.

Parole chiave: qualità dell’educazione, etica professionale, malessere docente, scuola.

 

Abstract: In the context of school quality, the educational function of the school must also be taken into account, today more than ever because of the phenomenon of discomfort and deviance. Educating means driving to the exercise of freedom as a capacity to act ethically well. The intervention shows the essentiality of this commitment, which is also commonly recognized in the regulatory documents. Learning of knowledge and skills is an opportunity in this sense if it is carried out in the key not merely or predominantly technical-functional.

Keywords: quality of education, professional ethics, mood teacher, school.

 

 

Di fronte alla sfida di educare, è frequente riscontrare un diffuso pessimismo. Si tratta, in realtà, del problema di sempre come mostra questa poesia di Teognide:

“Generare, allevare: assai più facile che infondere

nobile cuore. Chi c’è mai riuscito,

a fare d’uno stolto un saggio, un buono d’un cattivo?

Se un dio donava ai seguaci d’Asclepio [i medici]

l’arte di medicare il vizio e i cuori ottenebrati,

farebbero di certo affari d’oro.

E se il criterio si potesse fabbricarlo e infonderlo,

non sortirebbe, da buon padre, un [figlio] tristo:

darebbe retta alle parole sagge. L’educazione

non farà mai l’uomo cattivo buono” (AA.VV., 1975: 59).

Anche per questa ragione, dobbiamo raccogliere la sfida di affrontare l’“emergenza educativa” con tutti i mezzi a nostra disposizione (Negri, 2008; Bagnasco, 2009; Vico, 2009; Servizio nazionale per il progetto culturale della Cei, 2010), tra cui la scuola occupa un posto di assoluto rilievo. Infatti, è il luogo frequentato virtualmente da tutti i minori, quindi è possibile – incontrandoli tutti – offrire a ciascuno una formazione capace di aiutarlo a diventare chi è chiamato ad essere. Certamente, molti contribuiscono a questo risultato (dal dirigente al personale tecnico-amministrativo), ma il ruolo maggiore l’ha il docente: su di lui intendo soffermare l’attenzione. Prendo le mosse da alcune sfide che oggi investono la scuola come tutti gli ambienti educativi.

1. Sfide educative odierne

Il nostro tempo, accanto ai problemi di sempre, ne pone alcuni che hanno un profilo originale. Anzitutto, la sfida del disagio (Milan, 2001; Lizzola, 2009; Meregalli, 2014; Meregalli, 2017), dove la parola allude ad un’ampia gamma di comportamenti non solo “classici” (tossicodipendenza, criminalità minorile...), ma anche nuovi (bullismo, alcolismo...). Ci possono apparire piuttosto eterogenei, in realtà questi fenomeni hanno qualcosa di comune e ricorrente. La cosa che più inquieta di fronte ad essi non è tanto che esprimono la fatica di diventare adulti, perché diventare adulti non è stato mai facile per nessuno; è sempre stato un rischio, al punto che le società primitive associano il diventare adulto al rito iniziatico che in genere configura una morte simbolica, alludente al fatto che diventare adulti implica l’abbandono delle sicurezze infantili per fare vela nel mondo con tutti i pericoli – oltre alle opportunità – che questo comporta. Non stupisce quindi la fatica degli adolescenti di fronte alla sfida di diventare uomini e donne, sennonché questi adolescenti oggi hanno alti livelli di istruzione, vanno a scuola per molti anni; non fanno fatica a raccogliere le informazioni delle cose che li interessano; hanno standard di salute altrettanto apprezzabili perché, per molto tempo, sono monitorati annualmente dal pediatra... La domanda, quindi, che ci poniamo e che ci inquieta per la sua paradossalità è: “Com’è possibile che ragazzi e ragazze così ben attrezzati facciano tanta fatica a diventare adulti?”.

Il tratto comune dei comportamenti impropri è rappresentato dallincapacità di affrontare l’alterità della vita, cioè dalla difficoltà di accettare le frustrazioni che la vita inesorabilmente impone. Non è scritto da nessuna parte che le aspirazioni, nemmeno quelle legittime, debbano necessariamente trovare conferma. Quando, allora, ci troviamo in una condizione che non permette di accedere alla soddisfazione, bisogna essere in grado di vincere il richiamo narcisista che fa della soddisfazione la misura del bene e del male. Ma qui sta il problema. Le giovani generazioni sono afflitte dal problema del narcisismo, che accompagna costantemente la nostra esistenza (in quanto costituisce la comune condizione di partenza), ma va affrontato, contenuto e – intenzionalmente almeno – superato, se si vuole diventare adulti. Sappiamo che la storia di Narciso è tragica: quando scopre di essersi innamorato di sé stesso, perde la vita. Dietro a tante “sofferenze relazionali” dei nostri ragazzi, dietro le loro condotte improprie, sta molto spesso la fatica di contenere la pulsione, di assumerla come desiderio, quindi di sottoporla a valutazione per adottare una pratica controllata. Del resto, questi ragazzi hanno fatto poco i conti con la paternità, intesa come la disposizione a porsi come “alterità” nei confronti del figlio, alterità che allude non a una carenza d’amore, ma a un’espressione dell’amore diversa – agonistica – rispetto a quella materna (Risè, 2013; Lizzola, 2014).

Che il disagio sia un problema emergente, drammatico, a tratti tragico, è evidente. Ci costringe a rimettere al centro la figura paterna essenzialmente in chiave anti-narcisistica, perché il problema sul piano psico-pedagogico è riconducibile al narcisismo. Ma credo che ci sia almeno un’altra dinamica dietro la manifestazione del narcisismo che – lo ricordavo già – costituisce la matrice identitaria del bambino. La nostra è (forse dovremmo cominciare a dire: è stata, in relazione alla grave e persistente crisi economica, ma non intendo inoltrarmi in questa direzione) la società dei consumi ossia una società basata sul binomio “produrre per consumare-consumare per produrre”. È chiaro che funzionale a questa società è la continua ed inesausta stimolazione, più che del desiderio (termine che comprende una intenzionalità congiunta – almeno potenzialmente – alla valutazione morale), del bisogno (espressione che rimanda alla pulsionalità, quindi a un comportamento tendenzialmente cieco e irriflesso). Che cosa voglio dire? Che la società dei consumi tende ad infantilizzarci, rendendoci obbedienti – come il bambino piccolo – alla cieca necessità del bisogno: per questa ragione, non alimenta la stima di noi stessi.

Vorrei infatti condividere un’altra ipotesi. Se il problema è di guidare il bisogno/desiderio allo scopo di non praticare condotte non solo improprie, ma anche nocive, occorre avere un motivo per farlo. Credo che il motivo migliore sia la stima di sé che impegna a non lasciarsi andare, cioè a non svilirsi. Ma, se la persona in questione non ha stima di sé stessa, perché dovrebbe impedirsi l’accesso a una forma di piacere, ancorché sbagliata e/o nociva? Temo che accada questo a molti dei nostri ragazzi: si stimano poco e, per questa ragione, non si contengono, praticando condotte dissipative. Non vorrei che apparisse una tesi azzardata, per sostenerla faccio un esempio. Siamo ormai abituati a parlare di “bullismo”, ma perché abbiamo inventato un termine nuovo traendolo dall’inglese bullying? Forse per identificare l’esistenza di prepotenze consumate da qualcuno a danno di qualcun altro? Non credo, perché questo fenomeno è sempre esistito. Allora che cosa colpisce nel bullismo attuale? Certamente la sua diffusione e il profilo marcatamente violento che può assumere, ma soprattutto un’altra cosa: la facilità con cui il bullo trova la vittima, conseguente al fatto che ci sono molti soggetti che hanno scarsissima stima di se stessi. Perché accade questo? Per via dell’eclissi della paternità a cui mi sono riferito prima. Questa condizione si traduce in uno scarso ruolo dell’alterità nella pratica educativa che registra il costituirsi di personalità narcisisticamente piegate sui propri bisogni, quindi costituzionalmente fragili, come sottolineava già C. Lasch verso la fine del secolo scorso (1981 e 1985).

La lettura che sto svolgendo forse permette anche di cogliere il perché del permissivismo che si va diffondendo, che credo abbia un significato essenzialmente compensativo. Un’esistenza curvata sulla ricerca della soddisfazione, trova nel piacere anomico ciò che le permette di tirare avanti. Ma che cosa ne discende per la libertà? Incontrando un gruppo di alunni delle scuole gesuitiche, Papa Francesco ha svolto una considerazione che va oltre il profilo tipico della scuola cattolica: “Seguendo ciò che ci insegna sant’Ignazio, nella scuola l’elemento principale è imparare ad essere magnanimi. La magnanimità: questa virtù (...) che ci fa guardare sempre l’orizzonte. Che cosa vuol dire essere magnanimi? Vuol dire avere il cuore grande, avere grandezza d’animo, vuol dire avere grandi ideali, il desiderio di compiere grandi cose per rispondere a ciò che Dio ci chiede, e proprio per questo compiere bene le cose di ogni giorno, tutte le azioni quotidiane, gli impegni, gli incontri con le persone; fare le cose piccole di ogni giorno con un cuore grande aperto a Dio e agli altri. È importante allora curare la formazione umana finalizzata alla magnanimità. La scuola non allarga solo la vostra dimensione intellettuale, ma anche umana. (…) Anzitutto: siate persone libere! Che cosa voglio dire? Forse si pensa che libertà sia fare tutto ciò che si vuole; oppure avventurarsi in esperienze-limite per provare l’ebbrezza e vincere la noia. Questa non è libertà. Libertà vuol dire saper riflettere su quello che facciamo, saper valutare ciò che è bene e ciò che è male, quelli che sono i comportamenti che fanno crescere, vuol dire scegliere sempre il bene. Noi siamo liberi per il bene” (7 giugno 2013). Essere liberi significa, quindi, essere responsabili, ma essere responsabili significa saper rispondere – attraverso le nostre azioni – di noi stessi, nel senso di saper corrispondere alla nostra dignità. Siamo quindi chiamati a vivere in tensione con noi stessi ossia in vista del costante oltrepassamento di sé. Torna il richiamo della paternità come dell’istanza di decentramento a cui dovrebbe corrispondere la scuola come istituzione educativa formale, di cui il docente è la maggiore espressione.

2. Scuola, qualità, educazione: il ruolo del docente

2.1. Come identificare la qualità scolastica?

È comune parlare di “qualità” per la scuola come per tutti gli altri servizi pubblici. Generalmente è collegata alla “responsabilità” come “rendicontazione” ossia alla accountability (Loeb-Figlio, 2011) che certamente va tenuta presente, ma che diventa fuorviante se viene assolutizzata perché risponde a un criterio di funzionalità a cui non rimanda la radice dell’istituzione scolastica. C’è infatti una profonda assonanza tra il vocabolo “scuola” (in tutte le lingue occidentali) e la parola greca scholè che ne costituisce la matrice lessicale. Cosa intendevano i Greci con questa espressione? Il rimando è al tempo non occupato da impegni produttivi ossia al “tempo libero” perché non subisce la tirannia del bisogno. Come chiarisce bene Natali, è la “parte della giornata libera da impegni necessari, quella in cui ognuno afferma le proprie caratteristiche individuali, ed esplicita il senso che vuole dare alla propria vita: non è un tempo residuale rispetto a ciò che veramente è importante, è la parte più importante dell’esistenza, quella in cui si pone il problema di che tipo di uomo si è” (Natali, 1991: 70). Il termine è, quindi, affine all’otium latino. Del resto, quando dal mondo greco si passa a quello romano, per quanto attiene alla scuola sono due le espressioni d’uso corrente: ludus per quello che oggi connotiamo come “grado primario” e schola per quello che oggi connotiamo come “grado secondario”. In entrambi i casi la nota di fondo è quella della “gratuità” intesa come la non ordinazione alla strumentalità: nel primo caso, il vocabolo è lo stesso che significa “gioco”; nel secondo va tenuto presente che, per i Romani, la schola introduce nelle “arti liberali”, quelle che non hanno come proprio scopo di soddisfare i bisogni primari cioè di sussistenza. Faccio un esempio. La più antica fra le “arti liberali”, per quanto concerne la scuola, è la musica che, all’interno della confraternita pitagorica (la prima scuola di cui si abbia notizia in Occidente) aveva un ruolo di primo piano come le matematiche, essendo essa stessa interpretata come un’armonia matematica (in realtà, la musica è la più antica delle arti liberali insieme alla matematica). Non dobbiamo dimenticare che quella scuola aveva come scopo di introdurre nel bíos theoretikόs – la cosiddetta “vita contemplativa” – ossia un concreto stile di vita.

La qualità scolastica va associata anche a questa dimensione che vorrei sottolineare attraverso il richiamo di un altro termine oggi corrente, empowerment. Solitamente viene tradotto con “conferimento di potere” ossia con l’intervento educativo di orientamento contrario rispetto all’assistenzialismo che cronicizza e rende dipendenti. Il concetto ha chiaramente una valenza educativa che si esprime anche attraverso la scuola e che va a costituire uno degli indicatori della qualità scolastica. In proposito, voglio sottolineare l’affinità lessicale tra questa espressione inglese e l’antica espressione greca egkráteia che è costruita nello stesso modo ossia attraverso il richiamo dello “stato in luogo” (eg/en-in) riferito alla condizione di potere (krátos-power). In tale senso, tuttavia, il significato principale non è tecnico, ma etico. Anche da questo punto di vista, la qualità della scuola deve essere allargata rispetto a criteri puramente contabili. Non dobbiamo dimenticare che, quando si trattò di riprogettare i sistemi scolastici nel dopoguerra, Maritain lucidamente richiamò l’esigenza di impostare la scuola secondo l’“educazione liberale” ossia l’educazione della “comune umanità” che rimanda al fatto che la libertà identifica l’essere umano (Maritain, 1963: 125-128), prioritaria rispetto all’acquisizione delle – pur indispensabili – competenze di ordine strumentale. Del resto, questo studioso si ispira alla tradizione scolastica. Ha quindi ben presente come Aristotele affermi che l’essere umano – volendo somigliare al Motore Immobile – deve puntare a rendere la vita “a sé bastante e piacevole” non avendo “bisogno di nessuno” (Etica nicomachea, I, 1097b). È erede anche di Tommaso d’Aquino che nella Somma teologica, riconducendo il vocabolo persona a per se una (I, q. 29, a. 4, resp.), la riconosce “fine in sé”, esattamente come affermerà – secoli dopo – Kant: “la natura razionale esiste come un fine in sé. (...) L’imperativo pratico sarà, dunque, il seguente: agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche al tempo stesso come scopo, e mai come semplice mezzo” (1982: 126). Troviamo, conseguentemente, in questo principio un orizzonte comune a cultura cattolica e cultura laica, fondamentale nella complessità odierna. Anche in questo caso emerge che l’essere umano, godendo di uno statuto superiore a quello della “cosa”, non può essere formato anzitutto attraverso il riferimento all’utile, ma deve essere condotto a esprimere fino in fondo l’originalità che gli proviene dal fatto che vale anzitutto per quello che “è”, non per quello che “ha”, “sa” oppure “fa”.

Ma che cosa esprime l’essere umano per quello che “è”? La libertà. Certamente anche l’intelligenza la quale, però, in gradi diversi e inferiori è riconoscibile pure negli animali. Solo l’uomo, invece, pur essendo (come ogni altro vivente) condizionato nel proprio comportamento dall’influsso ambientale, non ne è determinato: in questo consiste il suo essere libero. Ma la libertà non è un dato di partenza “secco”: pensiamo al neonato la cui esistenza è guidata fondamentalmente dal bisogno. Eppure, questo stesso essere, apparentemente passivo, non è strutturalmente tale: in lui è radicata la disposizione a controllare e guidare l’istinto. Possiamo, quindi, affermare che la persona nasce “libera di liberarsi”, e interpretare l’intero corso della vita umana come la sfida che la libertà porta alla natura, dove questa seconda espressione connota la meccanicità del nesso causa-effetto. Lo esprime bene Pindaro quando, celebrando Cromo di Etna, vincitore nella corsa dei carri, ne esalta il “carattere” cioè l’identità intenzionalmente costruita:

La forza prevale nell’azione,

ma nelle decisioni la mente,

per coloro che posseggono il dono nativo della previsione.

Figlio di Agesidamo,

il tuo carattere ti permette di adoperare l’una come l’altra facoltà (1991: 205).

Nel costituirsi del carattere si esprime la libertà come “capacità di condursi”. Ma questa non si manifesta in forma automatica – come potrebbe? sarebbe in evidente contraddizione rispetto alla libertà come oltrepassamento dei vincoli necessitati – bensì come intenzionale e graduale assunzione della responsabilità di essere uomini. L’educazione connota questo percorso, configurando il costituirsi della libertà: ecco in quale senso l’educazione è propedeutica alla moralità.

Essere educati, quindi, anzitutto significa essere capaci di esercitare la libertà o almeno essere intenzionalmente impegnati a farlo (del resto, l’immaginario pedagogico è sempre stato abitato da richiami agonistici: almeno da Parmenide, quello delle “due” vie alternative tra cui si deve scegliere). Certamente i saperi strumentali concorrono a rendere questo esercizio compiuto ed efficace, ma non sono previ all’educazione bensì ad essa ordinati e subordinati. L’agire che conduce a questo esito ha un profilo singolare: non coincide con la generica assunzione dell’identità (ad esempio, non coincide con la “propaganda” perché questa determina omologazione) e nemmeno con l’acquisizione del “saper fare” (non si raggiunge per via di addestramento il quale – pur essendo apprezzabile per l’investimento motivazionale, intenzionale e applicativo che comporta – ha il limite di sovraordinare al soggetto agente l’oggettività dell’esecuzione), ma neppure con l’allevamento, cioè il soddisfacimento dei bisogni primari, in quanto – pur essendo indispensabili alla vita – sono comuni all’animal cioè all’impersonalità del “vivente”. Il segno distintivo dell’educazione è la personalizzazione che si manifesta nell’emergere del profilo originale e singolare di ciascuno, di cui l’esercizio della libertà è distintivo perché nessuno può essere libero al posto di qualcun altro. Di essa il pedagogista spagnolo García Hoz afferma quanto segue: “La personalizzazione (...) impegna e nobilita in qualche modo perché, in virtù della personalizzazione, qualcuno che prima era considerato ‘uno qualunque’ diventa il ‘punto focale’ dei riferimenti personalizzanti. L’educazione personalizzata è tale nella misura in cui si realizza in un soggetto che ha caratteristiche proprie, che si sente obbligato, impegnato, per le sue capacità personali e che, allo stesso tempo, si nobilita per il fatto stesso di vivere e operare come persona” (2005: 28). L’indicazione è chiara: mettere al centro la persona concreta dell’alunno significa sicuramente promuoverne l’affermazione anche cognitiva, ma considerando come essenziale l’istanza della crescita complessiva della persona che la “nobilita” perché ne afferma la finalità intrinseca e non la rende funzionale ad altro.

Questo spiega perché oggi sia strategico confrontarsi con il concetto di competenza. C’è infatti la diffusa tendenza a curvare l’espressione in senso operativo, accentuando il suo legame con un mansionario correlato al mondo del lavoro. Si tratta di una preoccupazione legittima, ma che va controllata perché la persona libera non vive per lavorare, come lo schiavo, ma lavora per vivere. In altre parole, la scuola anzitutto deve puntare alla crescita complessiva della persona e solo in subordine a questo deve introdurre in profili strumentali. Da questo punto di vista il termine “competenza” va associato al verbo latino petĕre, ma non nel senso di “chiedere per avere” (che volge in direzione dell’utilità pura e semplice), bensì in quello di “dirigersi”. La particella “con” – da questo punto di vista – richiama il cum latino di significato temporale, quello da cui deriva la parola “quando” (il suffisso -do, di provenienza indoeuropea, rimanda alla temporalità). Di conseguenza, la “competenza” viene a identificare la capacità di scegliere il meglio nella condizione concreta anzitutto dal punto di vista etico, coincide cioè con il concetto aristotelico di saggezza.

Si tratta, del resto, dell’idea, già ciceroniana (Sui doveri), secondo cui il buono è anche utile, ma non viceversa, ripresa da Newman (L’idea di università), quindi dal già ricordato Maritain, il maggior pedagogista cattolico del dopoguerra (Per una filosofia dell’educazione): l’educazione deve avere una valenza etica e solo in subordine a questa una valenza tecnica. Paolo VI, quando era assistente della FUCI, ha colto con chiarezza che la conoscenza anzitutto deve andare a formare colui che apprende: “Ho capito – scrive nel 1928 – che cosa finalmente era conoscere: rifare in me tutte le cose e quasi nutrirne della mia spirituale sostanza l’immagine loro; e con questo prodigare di me, indefinitamente arricchirmi” (2009: 35). Si tratta di una lezione ancora attuale e che orienta la professione docente in senso anzitutto etico e solo secondariamente tecnico (Damiano, 2007 e 2014), in coerenza con l’accreditamento di una riflessività dai tratti fortemente relazionali (Fabbri 2016 e 2017).

2.2 Chi è il docente?

Si possono adottare diverse prospettive per focalizzare la figura del docente, così come per avvicinare il concetto di qualità. A me preme, senza escludere l’approccio tecnico, dare la priorità a quello etico, relativamente a entrambe le questioni. Del resto, focalizzando l’attenzione sul docente, è significativo osservare che la più antica fonte storica a nostra disposizione (mi riferisco al Giuramento ippocratico) ne tratteggia il profilo in forma simbolicamente genitoriale ossia in chiave niente affatto tecnica: “Riterrò chi mi ha insegnato quest’arte pari ai miei stessi genitori, condividerò la vita con lui, e quando abbia bisogno di denaro gliene darò del mio e i suoi discendenti considererò alla stregua di miei fratelli, e insegnerò loro quest’arte, se desiderano apprenderla, senza compensi né impegni scritti; trasmetterò i precetti, gli insegnamenti orali e ogni altra parte del sapere ai miei figli così come ai figli del mio maestro e agli allievi che hanno sottoscritto il patto e giurato secondo l’uso medicale, ma a nessun altro” (Ippocrate, 1998: 129).

Da questa connotazione simbolicamente genitoriale ricavo la prima caratteristica del docente come magister (cioè maestro) in quanto esprime una “prevalenza” (da magis, in latino “più”) che si configura come priorità del generante sul generato. Associo questa identità a due tratti specifici: il controllo disciplinare e la maturità umana. Questi due vettori vanno a sostanziare il ruolo del docente che interviene, come interlocutore autorevole, portando un contributo essenziale al contenimento e al superamento del narcisismo (cioè dell’autoreferenzialità) di chi sta crescendo. Il docente è magister perché – come afferma Tommaso (Somma teologica, II-II, q. 188, a. 6, resp.) – deve “illuminare piuttosto che limitarsi a risplendere”. Questo avviene attraverso l’esercizio dell’autorità educativa che “fa crescere” (secondo il nesso etimologico sia del latino auctoritas da augēre sia del greco exoysía da éxeimi).

L’atto educativo fa crescere, ma – per far crescere – occorre sapersi mettere al livello di chi occorre far crescere. In tal senso, il docente è anche minister (da minus, in latino “meno”). Se, infatti, il docente non si mette al livello di colui che deve educare, quest’ultimo non potrà crescere: occorre, quindi, che quello incarni deliberatamente una “minorità” affinché questo possa progredire. Del resto, come afferma in diversi luoghi Erasmo, chi educa deve repuerescere, cioè ritornare alla condizione infantile nel senso non di regredire rispetto alla responsabilità che gli compete, ma di tornare interiormente a chi è stato, per saper riconoscere le esigenze di colui che è chiamato a educare. La ministerialità dell’educatore trae alimento dalla sua capacità di cogliere il livello di maturità di chi gli sta di fronte, praticare l’empatia intesa come la condivisione emozionale che non annienta la differenza di ruolo tra educatore ed educando. La ministerialità educativa, quindi, rende il docente prossimo allo studente senza che ciò si traduca in amicizia perché quest’ultima, essendo strutturalmente simmetrica – l’amico come “alter ego” della tradizione aristotelica (Etica nicomachea, IX, 12, 1172a) –, non corrisponde all’asimmetria della relazione educativa.

Magisterialità e ministerialità rimandano a una condizione di fondo: la disposizione del docente a guidare il discente, essendo paidagogós. Il termine letteralmente vuol dire “colui che guida il fanciullo”, storicamente si è trattato dello schiavo che guidava il figlio del padrone dal maestro oppure del servo colto che faceva da precettore al figlio del suo padrone. In ogni caso, quello che emerge è la condizione – ancora una volta – dell’autorità del docente che sa guidare alla conquista del sapere – più in generale di se stesso – da parte del discente.

Un’ultima identificazione va praticata. Il docente deve essere maieuta – questo è il senso della sua autorità –. Il maieuta è colui che rende possibile l’espressione dell’originalità da parte di chi gli è affidato: il docente è maieuta perché persegue la personalizzazione – cioè la fioritura – dell’educando e non la sua colonizzazione attraverso un modellamento estrinseco ed estraneo all’intimo profilo di lui (questa era la differenza tra Socrate e i sofisti). Ciò che connota il ragazzo e la ragazza, che diventano uomo e donna, è la libertà in quanto attributo peculiare non solo della condizione umana, ma anche del singolare profilo di ciascuno: questa è la sostanza dell’educazione, su di essa ora mi soffermo.

3. Spunti per risemantizzare l’“educazione” a scuola

3.1 L’originalità educativa della scuola

Non so se abbiamo fatto caso a questo: tendiamo a utilizzare l’espressione “educazione” senza aggettivo, ma chi l’ha detto che l’educazione sia necessariamente “buona educazione”? Al contrario, come hanno dimostrato gli anni del terrorismo in Italia (e non solo), sono possibili anche i “cattivi maestri” che purtroppo educano la libertà a praticare scelte cattive, come quella della violenza, cioè praticano la “cattiva educazione”, quella che si rispecchia nella deriva ideologica, nella violenza distruttiva e autodistruttiva... si tratta di un sintomo linguistico del fatto che abbiamo ceduto all’ingenuità di ritenere che la decisione umana sia automaticamente buona, ma non è così. Ora si tratta di guidare la persona affinché arrivi a maturare la disposizione a scegliere il meglio, in questo senso ad abbracciare una buona educazione. Ma che cosa significa educare nella scuola?

Sono due gli elementi che connotano la pratica educativa scolastica distinguendola da altre: la cultura e la formalità. Il primo riferimento è importante perché conferma quanto ho precedentemente sottolineato a proposito della scuola come luogo di formazione integrale della persona, quindi non puramente curvata in senso strumentale. Infatti, la cultura è natura trasformata, ma con l’avvertenza di cogliere che la trasformazione umana è tale perché trascende le motivazioni puramente funzionali tipiche del mondo animale. Sono anche per noi oggi eloquenti le riflessioni di Guardini circa la differenza tra la casa dell’uomo e la tana animale: “La costruzione del nido da parte dell’animale rimane sempre quello che è e cioè una conseguenza di necessità funzionali, realizzata sempre nello stesso modo, a meno che cambino le condizioni esterne o interne, alle quali poi si adattano anche le forme della costruzione. La casa dell’uomo invece si erge al di sopra di queste necessità e diventa una forma che esprime un senso per amore del senso” (2001: 166). Questa comparazione ci ricorda che la cultura, essendo espressione tipica della persona, non nega la motivazione strumentale, ma la oltrepassa, e questo in forza della libertà come connotato tipico e unico dell’essere umano tra i viventi dotati di corpo. La scuola è il luogo nel quale si produce e si comunica cultura in questo senso. A questa condizione ne associo un’altra: la scuola è un ambiente educativo formale dove l’espressione allude al riconoscimento di regole esplicitamente codificate allo scopo di ordinare i rapporti interpersonali i quali, pur essendo ricettivi anche di istanze di tipo espressivo e soggettivo, si strutturano secondo ruoli precisi e connesse responsabilità. Questa condizione è oggi tanto più rilevante per affrontare la sfida del narcisismo. In sostanza, sia la comunicazione culturale che la formalità sono a servizio della conquista della libertà come affrancamento dalla infantile tirannia dell’ego. Su questo ora intendo soffermarmi.

3.2 La sfida della libertà

Aristotele è stato tra i primi a interrogarsi sulla natura dell’educazione in Occidente. A lui risale l’affermazione che l’essere umano inizia a conoscere perché è mosso dalla meraviglia. Ma che cosa gli permette di meravigliarsi? Il fatto che, di fronte a quanto accade, sa porsi la domanda perché?, e questo avviene in ragione della sua libertà che non lo consegna e rassegna a prendere semplicemente atto di ciò che esiste. Già gli antichi, del resto, hanno riconosciuto che l’ultima cosa ad uscire dal vaso di Pandora – l’antico mito narrato per spiegare la diffusione dei mali nel mondo attribuita alla curiosità di chi ha voluto aprire ciò che andava tenuto chiuso – è stata la speranza, volendo significare che di norma si può oltrepassare – almeno nelle intenzioni – ogni situazione, anche la peggiore. Che cosa rende possibile lo sguardo fiducioso sull’avvenire? Ancora una volta, la libertà perché – grazie ad essa – l’essere umano non subisce passivamente gli avvenimenti, ma sa alzare lo sguardo e dirigersi verso un approdo che va oltre ciò che può essere previsto alla luce dei nudi dati di fatto. Su questo si gioca la maturità a cui la scuola deve condurre (questo spiega perché, in Italia, l’esame di Stato conclusivo della scuola secondaria superiore – fino a qualche anno fa – venisse chiamato “Esame di maturità”).

Tuttavia, la facoltà di esercitare la libertà, di cui solo l’essere umano tra gli animali dà testimonianza, non nasce già matura. Il neonato piange quando ha fame e dorme quando ha sonno, appare cioè dipendente dal bisogno – quindi tutt’altro che libero –. Ma non è così. Infatti, il cucciolo umano – lui solamente tra tutti coloro che vengono concepiti – può giungere ad esprimere libertà matura, e – dato che potenzialmente questo gli è possibile – significa che virtualmente gli è proprio, quindi – in realtà – è libero nel senso che è libero di liberarsi dal passivo assoggettamento ai condizionamenti. L’educazione è la dinamica attraverso cui questa virtualità diventa realtà. Torna il riferimento all’autorità educativa di cui il docente è espressione e che sostanzia l’educazione scolastica attraverso la cultura e la formalità finalizzate alla crescita dell’allievo.

Ritorno sulla fatica connotante l’educazione odierna, da cui ho preso le mosse, perché la scuola può portare un contributo essenziale al suo superamento. La nostra pratica educativa rischia di essere troppo curvata sulla soddisfazione dei bisogni dell’educando, essendo scarsamente impegnata a decentrarlo rispetto all’ego che fa sentire il suo richiamo tirannico. Ma, come osservavo prima, la scuola anzitutto rimanda alla libertà intesa come la capacità di oltrepassare la soglia del bisogno. L’educazione liberale – nel senso che ho prima richiamato – continua ad essere essenziale per la scuola e il docente ne costituisce il principale attore sulla scena scolastica, ovviamente insieme agli studenti e alle loro famiglie, ma con le proprie peculiarità. Di fronte allo scoraggiamento di molti docenti e al manifestarsi del burn-out (Pellegrino, 2009), segno visibile di un disagio che va affrontato e risolto, può essere utile – per completare la riflessione svolta fino ad ora – mettere a fuoco ciò che è in gioco nella pratica educativa. Lo farò attraverso uno scavo lessicale.

3.3 “Educāre” ed “educěre”

Poniamoci, conclusivamente, la questione: che cosa vuol dire educare? Suggerisco la risposta attraverso una ricognizione lessicale che fa derivare l’espressione da due vocaboli latini – educāre ed educěre –.

Il verbo educāre significa “guidare”, “nutrire”, “far crescere”, tutte azioni direttamente riguardanti l’educatore che – essendo adulto – sa riconoscere i bisogni dell’educando e corrispondervi attingendo alla propria esperienza. Questa espressione sottolinea il ruolo di colui che educa il quale funge da guida perché – in ragione della sua maturità – esercita una precisa responsabilità nei confronti di colui di cui si prende cura. Nel caso del docente, questo significa saper mostrare il tratto di magisterialità a cui prima mi sono riferito e che costituisce, a mio avviso, il connotato fondamentale del suo essere pedagogo, non erudita. Infatti, il docente, che deve sapere, non sa per se stesso, ma per guidare coloro che gli sono affidati nella conoscenza con lo scopo di alimentare la loro persona globalmente, non solo in senso cognitivo. Ecco il senso di quanto sostiene un grande docente ed educatore del secolo scorso, Luigi Stefanini: “Ogni sapere è un sapersi, ma, nelle condizioni umane del sapere, non c’è sapersi senza un sapere” (1962: 80); questo è peraltro, a mio avviso, anche il senso più profondo della motivazione intrinseca all’apprendimento scolastico su cui molti oggi riflettono (Brophy, 2003; Pellerey, 2006; Tempesta, 2008; Chivaro, 2012; d’Alonzo, 2014).

È diversa l’accezione del verbo educěre che significa “trarre fuori”, “estrarre”, “portare a manifestazione”. Anche in questo caso il termine si riferisce all’azione dell’educatore, ma – questa volta – essa è presentata come strutturalmente dipendente dall’educando. Infatti, è possibile “estrarre” solo ciò che già è presente; quindi, anche se il vocabolo allude all’azione svolta dall’educatore, in realtà è all’educando che questa viene ricondotta perché da lui intimamente dipende. Il verbo educěre rimanda ad una delle più antiche testimonianze di cosa significhi educare. Mi riferisco alla già evocata pratica della maieutica da parte di Socrate. Questo personaggio, celebrato lungo l’intera parabola del pensiero occidentale come modello di educatore, secondo la testimonianza platonica, diceva della sua azione (la maieutica, appunto) che “in tutto il rimanente rassomiglia a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che opera su gli uomini e non su le donne, e provvede alle anime partorienti e non ai corpi. E la più grande capacità sua è ch’io riesco, per essa, a discernere sicuramente se fantasma e menzogna partorisce l’anima del giovane, oppure se cosa vitale e reale” (Teeteto, 150b-c). Al magistero socratico si è guardato con interesse e favore, perché sollecita l’educando ad appropriarsi personalmente della verità, evitando di consegnarsi a risposte convenzionali e stereotipate. A questa pratica riconduco la ministerialità docente di cui ho parlato prima. Nei confronti di colui a cui insegna, il docente sa operare affinché prenda forma la sua – dell’allievo – personalità evitando ogni forma di plagio.

I due verbi educāre ed educěre illuminano l’atto educativo da due punti di vista diversi, ma complementari. Infatti, entrambe le espressioni sono costituite in dipendenza dal verbo ducěre che in latino significa “condurre” (da questo punto di vista, connotano l’educazione come una realtà dinamica nella quale l’educatore è la guida dell’educando); contemporaneamente, ciascuno dei due termini è costituito dal prefisso e/ex che in latino indica provenienza; ciò significa che il dinamismo espresso dall/nell’educazione è orientato. Da questo punto di vista, connotano l’educazione come una realtà dinamica che muove da un presupposto: la disposizione dell’educando all’esercizio della libertà, resa manifesta dall’azione dell’educatore, il quale – come osservavo prima – nel perseguire questa meta si scopre dipendente dal suo destinatario, quindi a lui anzitutto rimanda: l’educando è il protagonista dell’educazione. Questo vale anche per il docente nei confronti del discente essendo la pratica scolastica comunemente identificata – nei testi ordinamentali italiani, ma anche in molti documenti internazionali – con l’educazione.

Che cosa possiamo concludere da questo rapido accostamento all’educazione? Che educare significa guidare al decentramento dal narcisismo per poter esprimere la libertà come maturità. L’educazione non è solo educěre come talvolta si è pensato, in quanto questa dinamica è troppo esposta al rischio dell’autoreferenzialità, quindi di subire il richiamo narcisista. Accanto all’educěre ci deve essere l’educāre che decentra attraverso l’autorità (non l’autoritarismo che il docente, come più in generale l’educatore, evita ponendo limiti ragionevoli, a cui lui per primo si assoggetta): dal rapporto con essa l’educando (incluso lo studente) è introdotto nella capacità di governarsi, cioè di porsi dei limiti. Dall’intreccio tra educāre ed educěre prende forma un compito impegnativo, ma affascinante, che Plotino interpreta come un’opera artistica. È un passo delle Enneadi (I, 6, 9), ripreso quasi letteralmente da Agostino, che merita riportare: “Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora interiormente bello, fa come lo scultore di una statua che deve diventar bella. Egli toglie, raschia, liscia, ripulisce finché nel marmo appaia la bella immagine: come lui, leva tu il superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica ciò che è fosco e rendilo brillante e non cessare di scolpire la tua propria statua, finché non ti si manifesti lo splendore divino della virtù e non veda la temperanza sedere su un trono sacro”. In questa capacità si esprime la facoltà, tipicamente umana, di oltrepassare il bisogno. È su questo che occorre scommettere, se vogliamo effettivamente raccogliere la sfida della libertà. Si tratta di una sfida al cui superamento il docente – come educatore – dà un contributo essenziale.

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